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Thursday, 10 January 2013

La corruzione, la Cina e l'America

Sono anni che ci dicono che il modello cinese non è sostenibile nel lungo periodo, che non c'è abbastanza mercato e trasparenza e questi problemi rischiano di far schiantare la seconda economia mondiale.
Che la Cina sia corrotta non ci sono dubbi e lo riconoscono anche i dirigenti cinesi. Ma queste critiche paiono francamente un po' frettolose. Si, la Cina ha la seconda economia mondiale, ma il suo livello di reddito procapite è ancora bassissimo, è dunque un paese ancora pienamente in via di sviluppo e, notoriamente, nei paesi poveri la corruzione è più estesa che altrove.
Un recente studio aiuta a mettere le cose in prospettiva. Il livello di sviluppo cinese negli ultimi 15 anni è circa comparabile alla situazione americana tra l 1870 ed il 1930 - con  un reddito procapite che si è mosso da 2800 dollari a 7500. Ebbene, da una analisi comparata si nota che gli USA a cavallo dei 2 secoli fossero ben più corrotti della Cina attuale. Non dimentichiamoci infatti che gli Stati Uniti di 150 anni fa erano un paese dove i diritti civili ancora non esistevano, l'esercito veniva usato per sparare su minoranze etniche e lavoratori, piccole armate private venivano usate dagli oligarchi di turno, e i giudici si compravano all'asta. Eppure questo non ha certo fermato l'America dallo svilupparsi e diventare leader mondiale per ormai quasi un secolo.
E magari senza dimenticare che la definizione di corruzione è spesso modificata a piacimento per accomodare i nostri stili di vita. Ad esempio, che i politici americani si finanzino le campagne elettorali con i soldi che ricevono da grandi imprese si potrebbe definire come un caso di corruzione istituzionalizzata. Senza entrare poi nel mondo finanziario - quello che per anni è stato descritto come trasparente e come text-book example da seguire, soprattuto in Cina dove, si diceva, il sistema di accounting non era abbastanza trasparente. Salvo poi scoprire che il mondo dei subprime era (ed è!!) una tale oscenità da rendere impossibile qualsiasi controllo effettivo su redditività e rischio degli investimenti.

Monday, 24 December 2012

Made in America: ineguaglianza e monopolio


Recentemente abbiamo discusso i trend nella suddivisione del reddito in America, e come abbiamo visto la quota dei profitti è in ascesa costante, mentre la quota salari è ai minimi storici. Le spiegazioni economiche possono essere di diverso tipo, ma una di grande importanza è quella legata alla trasformazione in senso monopolista dell'economia americana. Questo tipo di argomentazione non solo non dovrebbe sorprendere nessun economista di sinistra, ma dovrebbe essere nel bagaglio intellettuale di qualsiasi economista liberale onesto. Che il monopolismo sia una alterazione della competizione e del libero mercato è cosa che si studia nei corsi base di macro-economia. E che l'economia americana, negli ultimi 30 anni (da Reagan in avanti, oh che sorpresa) sia diventata sempre più monopolista è fatto piuttosto noto, anche se quasi mai discusso (una notevole eccezione è quest'articolo di Lynn e Longman). Quando in questi ultimi decenni si è combattuto in nome del libero mercato, in realtà lo si è sempre fatto nel nome delle grandi compagnie, cioè quelle che alterano il mercato (non a caso, in Italia, il più grande paladino, a parole, del liberismo è stato il Monopolista per eccellenza, Berlusconi). Libertà d'impresa, infatti, non è sinonimo di libero mercato: perchè esista un vero mercato competitivo lo Stato deve attivamente abbattere monopoli e cartelli. Il che garantisce libertà d'entrata - cioè le piccole compagnie possono competere liberamente perchè i prezzi non sono fatti da altre compagnie (price-maker) ma sono il risultato di una competizione libera. Ma garantisce anche la libertà d'uscita, cioè la possibilità del fallimento di alcune imprese senza che questa metta a repentaglio un intero settore industriale (vedi il caso ILVA) quando non proprio l'economia nel suo complesso (è, ovviamente, il caso delle grandi banche o assicurazioni).
La crescita del monopolio non ha effetti solo sulla competizione tra imprese, ma, ovviamente, anche nella distribuzione del reddito e nell'influenza politica esercitata dal grande capitale. Le compagnie monopoliste bloccano la competizione e corrompono il mercato. E dunque non hanno un impatto solo sui prezzi al consumo, ma anche sul mercato del lavoro, soprattutto riducendo l'occupazione. Controllando il mercato, i monopolisti non hanno interesse ad espandere la produzione, stabilendo un equilibrio inefficiente sul mercato, caratterizzato da prezzi più alti e occupazione più bassa. Non investono, o investono meno, in ricerca e sviluppo, che è notoriamente una fonte importante di molti posti di lavoro. Bloccano l'entrata delle piccole compagnie sul mercato. E bloccano lo sviluppo di quelle piccole e medie già esistenti su segmenti di mercato collegati - la supply chain - perché possono imporre prezzi e quantità ai loro fornitori. Il tutto con un effetto netto di un perdita netta di posti di lavoro - come confermato dai dati sulla creazione di posti di lavoro anche prima della crisi. E quindi un indebolimento di fatto del lavoro. E qui parliamo semplicemente di relazioni economiche capitale/lavoro, senza neanche entrare nel complesso mondo delle lobby, della politica e del potere delle grandi imprese.


Thursday, 20 December 2012

Profitti e salari nell'America del dopo crisi

Ultimamente Paul Krugman ha rilanciato con forza un argomento che l'economia mainstream ha per anni accuratamente evitato: la lotta di classe.
In un recente post Krugman ha fornito qualche dato sul conflitto capitale-lavoro, spiegando come negli ultimi 10 anni la quota salari si sia drasticamente ridotta a vantaggio della remunerazione del capitale.



Il che si traduce molto semplicemente in un arricchimento dei capitalisti e di un impoverimento (relativo) dei lavoratori. Ed infatti, se guardiamo al trend dei profitti delle corporazioni come % del PIL, vediamo che dopo il crollo del 2008, i capitalisti americani hanno fatto più che bene, raggiungendo il massimo degli ultimi 20 anni.


Corporate profits as a percentage of US GDP chart
fonte: http://qz.com/37734/corporations-are-the-people-of-the-year-my-friend/

La cosa è ancora più importante ora, in una situazione di crisi. L'economia si contrae o, al meglio, è stagnante, e quindi l'impoverimento relativo dei lavoratori diventa impoverimento assoluto - in una torta più piccola, la fetta che va al lavoro si è ulteriormente ridotta pure in termini relativi. Mentre i profitti sono cresciuti a dismisura. E ricordiamoci che nella quota lavoro rientrano anche i salari super gonfiati dei grandi manager e dell'industria finanziaria!
In fondo è sempre la stessa storia, la vecchia lotta di classe di marxiana memoria. Chi si prende i proventi del lavoro? Guardando questo grafico, la risposta pare piuttosto ovvia. La crisi la pagano tutta i lavoratori, mentre per le imprese è la solita pacchia. Qualcosa da tenere in considerazione quando si discute di fiscal cliff.


Friday, 7 December 2012

L'inesistente relazione tra spread e austerity

Un bel grafico postato da Krugman sul NYT illustra alla perfezione l'ondata ideologica e propagandistica che ha invaso il dibattito politico ed economico in Europa e USA negli ultimi 3 anni.



In blu vediamo l'andamento dei tassi di interesse inglesi, in rosso quelli americani. Sono incredibilmente simili. Peccato però che i 2 paesi abbiano seguito politiche fiscali completamente diverse. Gli USA di Obama hanno foraggiato la ripresa economica e sono ora davanti al bivio del fiscal cliff con la minaccia delle rating agency di svalutare i bond americani se non ci fosse una stretta fiscale. Al contrario in UK il governo di coalizione ha imposto un'austerity a tutto spiano, rivendicandone i successi proprio in virtù di tassi di interesse molto bassi - mentre l'economia reale rimaneva risucchiata in un vortice restrittivo.
La realtà è che non è certo l'austerity (o la sua mancanza) a determinare i tassi di interesse o il cosiddetto spread. Come avevamo già detto, in America i tassi di interesse sui bond addirittura calarono dopo il downgrade del 2011. I tassi di interesse rimangono bassi perché i due paesi in questione sono monetariamente indipendenti e le due banche centrali possono stampare quanta moneta vogliono - non falliranno dunque mai, a meno che non lo vogliano.
A noi invece, proprio in virtù del potere dello spread, sono state imposte politiche di austerity che hanno ucciso la nostra economia, aumentato la disoccupazione, impoverito i lavoratori, tartassato i pensionati. Il tutto in nome di uno spread che è stato abbassato solo dall'intervento di Draghi. Eppure continuiamo ad andare nella direzione dei tagli, senza nessuna vera giustificazione....

Wednesday, 2 May 2012

La chiamavano una volta lotta di classe

Mishel, in un paper su produttività e compensazione oraria in America, ha dei dati che illustrano bene cosa sia successo alla più grande economia capitalista

Growth of real hourly compensation for production/nonsupervisory workers and productivity, 1948–2011


Sono anni che ci sentiamo ripetere che gli aumenti salariali devono essere legati alla produttività e la liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe portare proprio a questo, maggiore produttività e paghe più alte. Peccato che l'evidenza del mercato del lavoro più liberale del mondo dica qualcosa di molto diverso.
Come si vede molto bene, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1973 la produttività e l'aumento della paga oraria sono andate a braccietto. In parole povere, se si produceva di più, aumentavano i salari. Cioè quello che i mercatisti chiedono. Peccato avvenisse quando la forza lavoro americana era più sindacalizzata ed il mercato meno liberale.
Con la fine di Bretton Woods, la liberalizzione del mercato dei capitali e soprattutto la deregulation reaganiana le cose sono cambiate drasticamente. Una volta che il mercato è stato lasciato a se stesso, la legge del più forte ha prevalso ed il divario tra produttività e paga è aumentanto esponenzialmente, con le buste paga sostanzialmente stagnanti (ed il dato include anche i salari dei vari CEO e finanzieri, che sono aumentate a dismisura, quindi possiamo immaginare cosa sia successo agli altri).
E dove è andata il resto della produttività? Semplicemente a remunerare il capitale che si è impossessato di tutti o quasi i guadagni, aumentando la diseguaglianza e schiacciando il monte salari. La chiamavano una volta lotta di classe.
Detto molto semplicemente, i lavoratori americani avrebbero potuto avere una remunerazione più alta ed uno stile di vita migliore, senza ricorrere a quell'indebitamento che ha poi provocato la crisi dei subprime. Invece i salari sono rimasti stagnanti anche mentre l'economia cresceva.
E' questo quello che ci chiedono di fare adesso anche in Italia?



Thursday, 19 January 2012

Terza Guerra Mondiale

Il termine, invero un pò forte, è stato evocato dal banchiere d'affari Guido Vitale in una intervista sul Corriere della Sera. Il tema in discussione erano le agenzie di rating e il declassamento di quasi tutta l'Europa, compreso l'Efsf, in cui ci sarebbe lo zampino americano. Il concetto, in forma un pò più soft, è stato ripreso anche da Olli Rehn che ha definito le suddette agenzie "uno strumento del capitalismo USA".
Non sono bei segnali. Per difendere la City, il Regno Unito sta velocemente abbandonando l'Europa, mentre a Bruxells si comincia a covare il (sensato) sospetto che la finanza, largamente anglosassone, abbia anche un progetto politico.
Nei paesi meridionali dell'Europa si nutre lo stesso dubbio nei confronti della Germania, che deliberatamente strozza Grecia, Italia e Spagna a favore del capitale tedesco - e magari per comprare a prezzi stracciati quello che rimarrà del Mediterraneo. La situazione è talmente grave che pure il moderatissimo Monti invita i tedeschi a non confondere autorevolezza ed autoritarismo.
Ed anche Draghi ha cominciato a chiedere più soldi a Berlino, ma dalla Germania hanno prontamente risposto che non daranno un marco per salvare l'Italia. E ad Atene, intanto, il default è ormai scontato e mancano le aspirine dalle farmacie.
Tutti contro tutti. La crisi globale del capitalismo si sta velocemente trasformando in crisi politica, le cui conseguenze, imprevedibili, ridisegneranno i rapporti di forza a livello mondiale per il prossimo secolo. Con un'unica certezza: l'Europa ne uscirà con le ossa rotte.

Tuesday, 4 October 2011

Oligarchi

Per un paio di decenni il termini oligarchi e' stato associato ai nuovi ricchi russi che si erano arraffati le ricchezze dell'ex Unione Sovietica, con mezzi spesso criminali. Oligarchi erano anche le cricche sudamericane o le grandi industrie della Corea e del Sud Est Asiatico. E forse un oligarca era Berlusconi. Ma non si e' mai pensato di usare il termine oligarchia per riferirsi agli Stati Uniti.
Certo, non volevamo vedere quello che, invece, i numeri ci mettevano sotto il naso. Hacker e Pierson ci danno qualche esempio:
  • Nel 2004, l'1% più ricco delle famiglie americane possedeva una ricchezza netta di quasi 15USD milioni
  • Le 400 famiglie americane più ricche possedevano 3.9UDS milardi (!)
  • L'80% più povero aveva una ricchezza netta di 82.000 UDS
  • Il 40% più povero si doveva accontentare di 2.200 USD, sì, duemila e duecento dollari
  • Il 17% più povero aveva una ricchezza negativa, cioè aveva debiti - non c'entrano i mortgage fino a chè il valore della casa è superiore al prestito contratto
Che la società americana non distribuisse equamente il reddito lo sapevamo, ma questi numeri sono incredibili. La ricchezza finisce solo nelle mani di pochi mentre agli altri restano le briciole. La dinamica del reddito è simile a quella della ricchezza. Negli anni tra il 1979 ed il 2007 il reddito disponibile per la parte più povera della popolazione è diminuito in termini reali quando aggiustato per le ore lavorate (solo l'aumento delle ore di lavoro ha compensato il calo dei salari), ed è rimasto stagnate per la middle class. Mentre l'1% più ricco ha visto aumentare le proprio entrate del 256% e lo 0,1% ha visto il reddito sestuplicato - da 4UDS milioni nel 1979 a 24.3UDS milioni nel 2007.
Questo prima della crisi, ora le cose sono anche peggiori. Ci si aspetterebbe però che il financial meltdown del 2007 avesse portato consiglio. Invece il governo del "progressista" Obama rifiuta la Tobin Tax, mentre le banche americane rifiutano anche le riforme più timide per rivedere la loro governance. Non è solo la ricchezza a creare una oligarchia, ma il suo peso politico.