Wednesday, 19 December 2012

La Tobin Tax e l'ennesima bufala del governo

Governo dimissionario, ma pur sempre in grado di far danni. Alla fine della settimana scorsa l'esecutivo ha proposto un emendamento sulla cosiddetta Tobin Tax, la tassa sulla transazioni finanziarie. Un emendamento, non c'era da dubitarne, per annacquare la tassa e fare l'ennesimo favore alle banche. Per prima cosa si è deciso di non tassare tutte le transazioni, come si era inizialmente proposto, ma solo di tassare il saldo a fine giornata, lasciando così libertà di speculare allegramente durante il giorno (e se l'idea era ridurre il volume delle transazioni, cioè quello proposto da Tobin stesso, ovviamente si sta andando in direzione opposta!). Non contento, il governo ha deciso che l'imposta in questione sia limitata al mercato azionario, ignorando quello dei tassi e dei cambi, dove c'è la vera ciccia. Una vera e propria debacle per la Tobin Tax. Come spiega efficacemente Mucchetti sul Corriere della Sera, da una base imponibile pari a 7 volte il nostro Pil, il governo si propone di raggiungere un gettito di 1 miliardo, ma che più realisticamente si ridurrà a 250 milioni. Un'inezia che non serve a nulla per i nostri conti, e che nulla fa per diminuire la speculazione. L'ennesima entrata a gamba tesa di un governo tutto attento a non toccare i forti, ma sempre pronto a prendersela con i deboli.

Thursday, 13 December 2012

Cosa succede al Fondo Monetario Internazionale?

Per almeno 20 anni il Fondo Monetario Internazionale è stato il simbolo di tutto quello che c'era di sbagliato nella globalizzazione neo-liberista. La condizionalità, i programmi di aggiustamento strutturali, le politiche monetariste a tutti i costi che distrussero le economie asiatiche nel 1997, le privatizzazioni selvagge in Russia e nell'Europa dell'Est dopo la caduta del Muro, il potere delle burocrazie e dei mercati che sovrastava quello di governi democraticamente eletti: tutte scelte che si sono dimostrate sbagliate, quando non proprio disastrose, nel medio periodo.
Il Fondo, probabilmente al di là delle sue pur oggettive responsabilità, è stato dunque descritto come il falco, l'ala più estremista dei cosiddetti globalizzatori. Ora, invece, l'IMF sembra essersi velocemente trasformato nella colomba dei mercati finanziari. Gli economisti del Fondo, dopo un iniziale supporto, hanno rigettato l'austerity, spiegando che i calcoli inizialmente effettuati sul moltiplicatore erano sbagliati. Non solo, già in precedenza era stata rigettata la tesi di Alesina che si potesse avere una austerity espansiva. Ma non basta. Durante gli ultimi negoziati sul finanziamento del debito greco il Fondo ha preso una posizione molto coraggiosa: la UE voleva dare due anni in più alla Grecia per ripagare il debito, ma il Fondo si è opposto. L'IMF ha sostenuto che il debito greco non era comunque sostenibile e che si sarebbe dovuto procedere ad una ristrutturazione invece che allungare i tempi di rientro.
Ed infine, sorpresa sorpresa, il Fondo ha cambiato opinione sulla sua bandiera storica, i movimenti di capitale. Durante gli anni 80 e 90, ed anche nell'ultimo decennio, all'IMF hanno strenuamente sponsorizzato la liberalizzazione dei mercati finanziari, sostenendo che questa avrebbe fornito capitali ai paesi in via di sviluppo e migliorato l'efficienza dell'economia mondiale. Come sappiamo, non è andata proprio così. Ora se ne rende conto anche il Fondo che fa marcia indietro. Si tratta di una posizione ancora molto timida, che semplicemente spiega come nelle economie in via di sviluppo la mancanza di controlli sui capitali possa creare bolle speculative destinate poi a scoppiare e mettere in difficoltà quei paesi. Ma si rifiuta ancora di considerare la speculazione come una forza destabilizzatrice e che ha ben poco di razionale. Meglio che niente, comunque.
Non si tratta certo di una rivoluzione, ma di primi passi di allontanamento da un modello economico evidentemente fallimentare. Se lo hanno capito anche gli economisti ideologizzati dal Fondo, come mai i politici europei non se ne sono ancora resi conto?

Wednesday, 12 December 2012

La UE fuori dalla realtà

L'articolo di qualche giorno fa del commissario europeo Olli Rehn, responsabile per gli affari economici e monetari della UE, è un manifesto della stupidità dell'Unione. Non si possono davvero usare altre parole.
Il commissario chiede di continuare con ancora maggiore austerity. Nel primo pezzo dell'articolo spiega come l'austerity stia funzionando benone, e di fatti l'Irlanda è tornata a raccogliere prestiti sui mercati, più capitale si è mosso verso la Spagna e lo spread per l'Italia è diminuito. Ma il commissario non accenna neppure alla disoccupazione in aumento in tutti i PIIGS, alla povertà, alla recessione. Più che Commissario agli affari economici, forse questo Rehn pensa di essere un broker finanziario. Totalmente inadeguato al ruolo di responsabilità che ricopre.
La seconda parte è altrettanto risibile. Si dice, in sostanza, che il peso del riequilibrio dei conti europei deve ricadere tutto sui paesi in difficoltà. Tutta colpa dei debitori, i creditori possono sedere in riva al fiume e aspettare il cadavere dei nemici. Si cita addirittura a sproposito Keynes, evidentemente letto su un Bignami, versione finlandese. L'idea balzana è che per ridurre i disavanzi commerciali bisogna obbligare i paesi debitori ad una svalutazione interna (leggi, salari bassi e disoccupazione) mentre una politica inflattiva nei paesi creditori avrebbe effetti molto minori - la Germania comprerebbe comunque beni e servizi in Polonia ma non in Spagna. Ma allora a cosa serve aumentare la competitività spagnola? In realtà si vuole impoverire quel paese in maniera tale da indurlo ad importare meno!
Il finale è una chicca: si sostiene che la Germania, applicando una austerity più ridotta rispetto agli altri paesi europei, sarà comunque in una situazione di de facto stimolo fiscale. Roba da matti. Il fatto di tagliare relativamente meno le spese non renderà i tedeschi più ricchi, e quindi più inclini a spendere e dunque ad aumentare le importazioni dal sud Europa. Non capire la differenza tra meno poveri e più ricchi è veramente patetico.
E' grazie a personaggi di questo genere che l'Europa sta andando a fondo. Ma Rehn non se ne è neppure accorto. Tutto va bene, nel paese delle meraviglie dove il Commissario-regina di cuori taglia la testa dei lavoratori europei. Continuiamo a farci del male!

Friday, 7 December 2012

L'inesistente relazione tra spread e austerity

Un bel grafico postato da Krugman sul NYT illustra alla perfezione l'ondata ideologica e propagandistica che ha invaso il dibattito politico ed economico in Europa e USA negli ultimi 3 anni.



In blu vediamo l'andamento dei tassi di interesse inglesi, in rosso quelli americani. Sono incredibilmente simili. Peccato però che i 2 paesi abbiano seguito politiche fiscali completamente diverse. Gli USA di Obama hanno foraggiato la ripresa economica e sono ora davanti al bivio del fiscal cliff con la minaccia delle rating agency di svalutare i bond americani se non ci fosse una stretta fiscale. Al contrario in UK il governo di coalizione ha imposto un'austerity a tutto spiano, rivendicandone i successi proprio in virtù di tassi di interesse molto bassi - mentre l'economia reale rimaneva risucchiata in un vortice restrittivo.
La realtà è che non è certo l'austerity (o la sua mancanza) a determinare i tassi di interesse o il cosiddetto spread. Come avevamo già detto, in America i tassi di interesse sui bond addirittura calarono dopo il downgrade del 2011. I tassi di interesse rimangono bassi perché i due paesi in questione sono monetariamente indipendenti e le due banche centrali possono stampare quanta moneta vogliono - non falliranno dunque mai, a meno che non lo vogliano.
A noi invece, proprio in virtù del potere dello spread, sono state imposte politiche di austerity che hanno ucciso la nostra economia, aumentato la disoccupazione, impoverito i lavoratori, tartassato i pensionati. Il tutto in nome di uno spread che è stato abbassato solo dall'intervento di Draghi. Eppure continuiamo ad andare nella direzione dei tagli, senza nessuna vera giustificazione....

Tuesday, 4 December 2012

La pillola avvelenata dei liberali

Zingales non ci delude mai. Il suo ultimo post su Project Syndicate dice tutto della alta concezione della democrazia che hanno i liberali. L'articolo è dedicato ai possibili problemi dell'OMT - outright monetary transactions - cioè il meccanismo per cui si potranno comprare bond dei paesi europei in difficoltà, così da tenere sotto controllo lo spread.
Zingales identifica con efficacia i limiti di questo meccanismo, la solita paccottiglia iper-burocratica scaturita dalla UE, una cosa bellissima che richiede che i parlamenti degli stati ricchi votino sull'esautorare di fatto i parlamenti degli stati poveri. Cioè tu sei in difficoltà, chiedi i soldi: noi ricchi ci riuniamo, decidiamo democraticamente, e se ti diamo i soldi poi decidiamo anche tutto quello che farai te d'ora in avanti. Sovranità limitata.
Ma Zingales di questo non si scandalizza, anzi. Teme le difficoltà politiche, non l'obbrobrio istituzionale. Ed infatti se ne esce con un commento geniale. Monti dovrebbe chiedere ora i fondi per l'Italia. Partirebbe così il programma di riforme strutturali decise dall'Europa in cambio di fondi e si eviterebbe qualsiasi dubbio riguardo le prossime elezioni. Il prossimo governo avrebbe letteralmente la mani legate (triggering the OMT in advance... would tie the hands of any future Italian government), con un programma già scritto all'estero e sottoscritto dallo governo uscente. Mica male, il sogno di Napolitano, probabilmente.
Una bella pillola avvelenata per evitare qualsiasi tipo brutta sorpresa alle prossime elezioni, perché si sa, questi elettori, soprattutto quando disoccupati e ridotti alla povertà, potrebbero avere qualche grillo per la testa.
Sempre lucido Zingales, in effetti e coerente con quello che i suoi maestri, tipo il Friedman che sosteneva Pinochet, gli hanno insegnato. Meglio però che rimanga a Chicago a insegnare economia, chè di democrazia ne capisce davvero poco.

Friday, 30 November 2012

Il problema del capitalismo italiano

Sembra ovvio a dirsi, ma è la produttività. Anche oggi riprendo un ottimo grafico di Krugman:



fonte: http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/11/26/whats-the-matter-with-italy/


Un problema che ci portiamo avanti dall'inizio della seconda Repubblica. I motivi possono essere tanti, a cominciare dalla taglia extra-small delle imprese italiane. I fatti, comunque, dicono che la globalizzazione, la creazione del mercato unico europeo e la mercatizzazione dell'economia hanno affossato la nostra industria. Le colpe andrebbero equamente distribuite tra capitalisti che sono in realtà rentiers, che non hanno investito in ricerca e sviluppo, che hanno trasformato la flessibilità in precarietà;  sindacati, che hanno preferito un modello tutto italico di concertazione neo-corporativista, che in nome dell'unità sociale ha fondamentalmente sottoscritto una repressione salariale anche a fronte di profitti enormi delle industrie (che di conseguenza non hanno mai trovato stimoli adeguati per l'investimento); e naturalmente della politica, incapace di garantire una corretta politica industriale proprio nel momento di cambiamenti sistemici portati dall'apertura delle frontiere e dall'accrescersi della concorrenza capitalista - una politica che dunque teneva tasse alte senza fornire servizi e welfare adeguati alla nuova situazione economica.
Eppure, davanti all'evidenza dei numeri, ancora oggi nessuno è in grado di prendersi le proprie responsabilità - ed è dunque difficile pensare che ci possa essere una via d'uscita dietro l'angolo. Il caso dell'accordo sulla produttività è lampante in tal senso. Non solo mina la contrattazione nazionale ma agisce comunque solo sui costi, riducendo il cuneo fiscale. Che in generale è una buona idea per le imprese in crisi, ma non fa nulla per modificare l'andamento della produttività del lavoro. Per fermare il declino bisogna partire anche e soprattutto da lì.

Tuesday, 27 November 2012

Ma non è vero che la sanità pubblica non è sostenibile

Ecco il tormentone che ci perseguiterà per i prossimi anni: la sanità. Monti ha aperto il fuoco, assai poco amico, contro la sanità pubblica con un vecchio classico che i liberali usano sempre quando si tratta di attaccare i servizi pubblici - non sono sostenibili. E per bacco. Deve essere come per le pensioni, insostenibili per 20 anni fino a che non abbiamo deciso di tagliarle - anzi per la verità sono 20 anni che le tagliamo e non basta mai. Ed intanto abbiamo creato un bel po' di fondi privati di pensione, privatizzando di fatto la previdenza.
Faremo lo stesso con la sanità? Se dipendesse solo da Monti non c'è da dubitarne. D'altronde è sempre la stessa storia. Lo Stato è inefficiente. La popolazione diventa sempre più vecchia e quindi più bisognosa di cure e non abbiamo soldi per tutti. Qualcosa bisognerà pur fare, magari diamo in mano ai privati il servizio così riduciamo gli oneri per lo Stato. Peccato che come già mostrato in precedenza la sanità privata (americana) sia la più costosa del mondo. Forse viene considerata più sostenibile perché garantisce servizi ottimi ai ricchi e mediocri ai poveri che non possono permettersi un conto troppo salato - ma anche così pagano di più di quello che si farebbe con la sanità pubblica.
Ed allora quale soluzione? Forse basterebbe tassare in maniera seria i redditi più alti e la ricchezza. In un paese in cui oltre il 50% della ricchezza privata è detenuta da una piccola percentuale di oligarchi, ci sarebbero risorse a iosa per garantire un sistema sanitario efficiente, ricco e pubblico. Basta volerlo.