Wednesday 23 January 2013

Alesina&Giavazzi custodi della verità di comodo.

Impareggiabile la premiata ditta del Corsera, Alesina&Giavazzi, i custodi della verità di comodo. La loro ultima uscita è ai limiti del ridicolo, degna del Bagaglino. Spettacolo per altro cui ci hanno ormai abituato: prima sostenendo che il liberismo è di sinistra (si, quel liberismo che ha aumentato ovunque le diseguaglianze e ha bloccato la mobilità sociale in UK e USA: esattamente quello che ci si aspetta dalla sinistra). Recentemente avevano pure provato a sostenere che Obama stesse trasformando gli USA in una socialdemocrazia di stampo europeo, una fanfaronata degna del peggior Tea Party. Nel frattempo avevano provato a cimentarsi in esperimenti economici spericolati, provando a sostenere che l'austerity rilancia la crescita. Una assurdità talmente esagerata che era dovuto intervenire anche il FMI per smentirli, in maniera anche piuttosto dura: i nostri due amici avevano manipolato i dati per ottenere conferma alla loro tesi. Mica male quanto a rigore accademico. Ora tornano alla carica. La Banca d'Italia ha appena presentato i risultati delle sue ricerche spiegando che la recessione italiana è dovuta in larga misura alle misure di austerity? E chi se ne frega. Il Fondo Monetario ha recentemente pubblicato diversi paper sostenendo che i calcoli su cui erano basate le politiche di austerity erano viziati da un errore di fondo nel calcolo del moltiplicatore? Irrilevante. La verità, quella sostenuta da approfondite ricerche empiriche, è diversa. L'austerity non c'entra nulla con la recessione. Ve lo dicono Alesina&Giavazzi, c'è da fidarsi e se gli altri, tipo il Financial Times, dicono il contrario, son solo stupidaggini.
Ecco, FT, FMI, Banca d'Italia, tutti degli stupidi, anzi in malafede perché basano le loro teorie non sull'evidenza empirica. In effetti, detto da due grandi esperti del settore, ci sarebbe pure da fidarsi. Che poi la realtà che abbiamo davanti agli occhi sia diversa da quella manipolata nei loro paper poco importa. Almeno a loro.

Saturday 19 January 2013

Ma i ricchi non pagano mai

La campagna elettorale è un po' la cartina di tornasole della serietà della politica italiana. Quasi zero. Dopo aver tassato a tutto spiano, soprattutto i più poveri, ora Monti parla di ridurre le tasse. Tutti capaci a parole, un po' come il prode Silvio che son 20 anni che lo ripete, avendolo fatto solo in 2 casi, successione e ICI. Per altro, una vergogna: le due tasse più giuste e più liberali di tutte, che colpiscono la ricchezza, cancellate per fare un favore ai più ricchi, appunto. Tra PDL e Monti siamo poi alla pantomima redditometro, una delle poche cose sagge fatte di cui ora nessuno vuole assumersi la responsabilità. E quindi, già che ci siamo, depotenziamola. Con una bella franchigia di 12 mila euro sulle entrate sospette vuol dire poter avere un reddito aggiuntivo da evasione di 1000 euro mensili, più di quanto guadagnano, alla luce del sole, la maggior parte dei precari italiani. E che sarà mai una mancetta aggiuntiva per non disturbare troppo gli evasori?
Ma non è finita, perchè anche il PD si butta mani e piedi nella contesa fiscale. Lo fa con la rimodulazione dell'IMU. Appare già discutibile l'idea di escludere dalla tassazione tutte le prime case con tassa sotto i 500 euro. Equivarrebbe ad esentare il 41% della popolazione, altro che progressività. Pensare che il 10 o anche i 20% più povero della popolazione sia in una situazione simile ai successivi 2 decili è abbastanza ridicolo. Ma il massimo arriva quando si parla di far salire i costi per i cittadini più ricchi. La quota che Bersani fissa per far salire l'IMU è un valore catastale dell'immobile superiore al 1.5 milioni di euro (a valore di mercato circa il doppio). Andiamo proprio a cercare le mosche bianche, 160 mila immobili circa (fonte: Repubblica). Ma se anche l'idea è non accanirsi sulla middle class, questa idea di middle class è piuttosto vaga. Chi ha una casa del valore superiore al milione di euro (poco più di 500 mila di valore catastale) non può certo considerarsi classe media, se non nel fantasioso mondo del PD. Nè possiamo veramente credere che i ricchi siano una frazione così minuscola della popolazione.
Infine, coerentemente con questo approccio, il PD rifiuta una patrimoniale. Tanto c'è già l'IMU. Ma come abbiamo visto l'IMU colpisce seriamente pochissimi patrimoni. Per altro con tassi assai più bassi, tanto per fare un esempio, di Gran Bretagna e Danimarca. Per altro, un IMU seria dovrebbe servire a finanziare i comuni, cioè per fornire servizi pubblici. Lo scopo della patrimoniale dovrebbe essere ben altro, cioè ridurre in maniera sostanziale il nostro debito pubblico - che caso strano è sparito dai giornali ormai da qualche mese, nonostante sia in continua crescita. Dunque la patrimoniale per ridurre il debito, facendo pagare quelli che, mentre il debito andava fuori controllo, diventavano sempre più ricchi. Non essendo stati tassati adeguatamente allora (anzi, nella maggior parte dei casi, non essendo tassati proprio per nulla, in quanto evasori), questi signori dovrebbero prendersi sulle spalle il peso del debito italiano. Ricordiamo per inciso che il 10% della popolazione italiana detiene oltre il 50% della ricchezza totale. E che la ricchezza privata in Italia è 5 volte superiore al nostro debito pubblico (un rapporto più alto che in Germania). Dunque una patrimoniale (altro che IMU!!) una tantum sui contribuenti più ricchi potrebbe ridurre in maniera consistente il debito senza certo intaccare la solidità di questi patrimoni (pensiamo ad una aliquota del 5-7% che ridurrebbe di circa 1/4 il nostro debito, liberando grandi risorse per la crescita e liberandoci fondamentalmente dal fiscal compact). Ma chissà, nella mente dei democratici, questa potrebbe essere una proposta populista....

Thursday 10 January 2013

La corruzione, la Cina e l'America

Sono anni che ci dicono che il modello cinese non è sostenibile nel lungo periodo, che non c'è abbastanza mercato e trasparenza e questi problemi rischiano di far schiantare la seconda economia mondiale.
Che la Cina sia corrotta non ci sono dubbi e lo riconoscono anche i dirigenti cinesi. Ma queste critiche paiono francamente un po' frettolose. Si, la Cina ha la seconda economia mondiale, ma il suo livello di reddito procapite è ancora bassissimo, è dunque un paese ancora pienamente in via di sviluppo e, notoriamente, nei paesi poveri la corruzione è più estesa che altrove.
Un recente studio aiuta a mettere le cose in prospettiva. Il livello di sviluppo cinese negli ultimi 15 anni è circa comparabile alla situazione americana tra l 1870 ed il 1930 - con  un reddito procapite che si è mosso da 2800 dollari a 7500. Ebbene, da una analisi comparata si nota che gli USA a cavallo dei 2 secoli fossero ben più corrotti della Cina attuale. Non dimentichiamoci infatti che gli Stati Uniti di 150 anni fa erano un paese dove i diritti civili ancora non esistevano, l'esercito veniva usato per sparare su minoranze etniche e lavoratori, piccole armate private venivano usate dagli oligarchi di turno, e i giudici si compravano all'asta. Eppure questo non ha certo fermato l'America dallo svilupparsi e diventare leader mondiale per ormai quasi un secolo.
E magari senza dimenticare che la definizione di corruzione è spesso modificata a piacimento per accomodare i nostri stili di vita. Ad esempio, che i politici americani si finanzino le campagne elettorali con i soldi che ricevono da grandi imprese si potrebbe definire come un caso di corruzione istituzionalizzata. Senza entrare poi nel mondo finanziario - quello che per anni è stato descritto come trasparente e come text-book example da seguire, soprattuto in Cina dove, si diceva, il sistema di accounting non era abbastanza trasparente. Salvo poi scoprire che il mondo dei subprime era (ed è!!) una tale oscenità da rendere impossibile qualsiasi controllo effettivo su redditività e rischio degli investimenti.

Tuesday 8 January 2013

Le banche inglesi too big to fail, e il mercato drogato

Ultimamente abbiamo parlato del ritorno in forza del monopolio nell'economia americana. Ma le altre economie occidentali non sono messe poi molto meglio, e questo è vero soprattutto nell'industria finanziaria. Se guardiamo al Regno Unito possiamo vedere gli effetti che questa concentrazione ha sulle operazione di mercato. E come riportato recentemente dalla New Economic Foundation, anche l'anno scorso le principali banche inglesi hanno avuto un consistente influsso di denaro pubblico.


fonte: http://www.neweconomics.org/toobigtofail

No, non ci riferiamo ai soldi del bail out dati a Lloyd's e RBS nel passato. In questo caso gli aiuti sono frutto di un sussidio indiretto. Le grandi banche, forti di una garanzia implicita di salvataggio da parte del governo inglese, possono accedere al mercato a tassi di interesse molto più bassi di quelli che sarebbero altrimenti richiesti - ricordiamo, meno rischio equivale a premium (cioè interessi) più bassi da pagare. La Banca d'Inghilterra chiama questo fenomeno  Too Big To Fail Subsidy.  I dati per il 2011 li vedete nella figura precedente.
Ovviamente si tratta di un problema non da poco. Questi sussidi indiretti rendono un mercato già molto concentrato ancora meno competitivo, dando un vantaggio ingiusto alle grandi banche contro le piccole (che possono invece fallire senza molti problemi). Il che ovviamente diventa un serpente che si morde la coda, più le banche sono grandi, più saranno garantite dallo Stato, più potranno accedere al mercato a condizioni favorevoli, più ancora si ingrandiranno. Allo stesso tempo un accesso al credito di questo genere modifica le aspettative di rischio e quindi le decisioni di investimento. E naturalmente il tutto è l'ennesimo toccasana per i profitti di queste banche, inflazionati non dalle proprie capacità ma semplicemente dalla loro dimensione.


Saturday 5 January 2013

La Banca Centrale, l'inflazione e la piena occupazione

Qualche tempo fa avevamo parlato del "peggior" banchiere centrale del mondo, la governatrice della banca centrale argentina, Mercedes Marco del Pont. La signora aveva vinto il premio per aver inserito nel suo mandato criteri "assurdi" per la comunità finanziaria internazionale, come lo sviluppo economico e l'equità sociale. Per decenni, infatti, si è pensato che le banche centrali dovessero solo garantire la stabilità dei prezzi e dei mercati finanziari. La BCE fu costruita seguendo questo modello e il suo mandato rispecchia tali priorità.
Dall'altra parte dell'Atlantico però qualcosa si muove. La FED ha sempre tenuto tra le sue priorità anche il livello occupazionale anche se, di fatto, dando a questo parametro meno importanza che agli altri due. Ben Bernanke, però, ha ultimamente fatto dichiarazioni che hanno fatto scalpore nella comunità economico-finanziaria internazionale. Ha infatti sostenuto che in questo momento non è tanto importante tenere l'inflazione sotto il 2% quanto invece cercare di far calare la disoccupazione sotto il 6.5%. Mica poco!
A parte un approccio più espansivo per la politica monetaria (e quindi un aiuto diretto alla Casa Bianca e ai suoi piani di sviluppo economico), tale dichiarazione ha una valenza teorica e filosofica di una certa importanza. Infatti per tutti o quasi i figliocci di Milton Friedman la disoccupazione non è mai stata un problema, anzi. La disoccupazione è trattata nella maggior parte dei casi come "volontaria" (i lavoratori si rifiutano di lavorare al corrente livello dei salari), e soprattutto è vista come una variabile "positiva" in quanto aumenta la flessibilità del sistema economico. Una percezione per altro condivisa dal grande capitale (ma guarda te) che sa benissimo che tanto più siamo lontani dalla piena occupazione tanto più basso sarà il livello dei salari.  Con le sue parole Bernanke riporta il focus sulla questione sociale e sull'importanza del lavoro, specialmente nei periodi di crisi. E relativizza, anche se solo marginalmente, il ruolo dell'inflazione, vera e propria ossessione dei monetaristi (ossessione per altro non comprovata da nessun dato reale, come già spiegato in passato).
Se anche la BCE (e, soprattutto, la Germania) cominciassero ad essere meno dogmatici e ad ispirarsi un poco al pragmatismo americano, anche per la crisi europea (sia per quanto riguarda il debito, sia per quanto riguarda il deficit di competitività dell'area mediterranea rispetto a quella nordica) potrebbero finalmente aprirsi spiragli di speranza.

Monday 24 December 2012

Made in America: ineguaglianza e monopolio


Recentemente abbiamo discusso i trend nella suddivisione del reddito in America, e come abbiamo visto la quota dei profitti è in ascesa costante, mentre la quota salari è ai minimi storici. Le spiegazioni economiche possono essere di diverso tipo, ma una di grande importanza è quella legata alla trasformazione in senso monopolista dell'economia americana. Questo tipo di argomentazione non solo non dovrebbe sorprendere nessun economista di sinistra, ma dovrebbe essere nel bagaglio intellettuale di qualsiasi economista liberale onesto. Che il monopolismo sia una alterazione della competizione e del libero mercato è cosa che si studia nei corsi base di macro-economia. E che l'economia americana, negli ultimi 30 anni (da Reagan in avanti, oh che sorpresa) sia diventata sempre più monopolista è fatto piuttosto noto, anche se quasi mai discusso (una notevole eccezione è quest'articolo di Lynn e Longman). Quando in questi ultimi decenni si è combattuto in nome del libero mercato, in realtà lo si è sempre fatto nel nome delle grandi compagnie, cioè quelle che alterano il mercato (non a caso, in Italia, il più grande paladino, a parole, del liberismo è stato il Monopolista per eccellenza, Berlusconi). Libertà d'impresa, infatti, non è sinonimo di libero mercato: perchè esista un vero mercato competitivo lo Stato deve attivamente abbattere monopoli e cartelli. Il che garantisce libertà d'entrata - cioè le piccole compagnie possono competere liberamente perchè i prezzi non sono fatti da altre compagnie (price-maker) ma sono il risultato di una competizione libera. Ma garantisce anche la libertà d'uscita, cioè la possibilità del fallimento di alcune imprese senza che questa metta a repentaglio un intero settore industriale (vedi il caso ILVA) quando non proprio l'economia nel suo complesso (è, ovviamente, il caso delle grandi banche o assicurazioni).
La crescita del monopolio non ha effetti solo sulla competizione tra imprese, ma, ovviamente, anche nella distribuzione del reddito e nell'influenza politica esercitata dal grande capitale. Le compagnie monopoliste bloccano la competizione e corrompono il mercato. E dunque non hanno un impatto solo sui prezzi al consumo, ma anche sul mercato del lavoro, soprattutto riducendo l'occupazione. Controllando il mercato, i monopolisti non hanno interesse ad espandere la produzione, stabilendo un equilibrio inefficiente sul mercato, caratterizzato da prezzi più alti e occupazione più bassa. Non investono, o investono meno, in ricerca e sviluppo, che è notoriamente una fonte importante di molti posti di lavoro. Bloccano l'entrata delle piccole compagnie sul mercato. E bloccano lo sviluppo di quelle piccole e medie già esistenti su segmenti di mercato collegati - la supply chain - perché possono imporre prezzi e quantità ai loro fornitori. Il tutto con un effetto netto di un perdita netta di posti di lavoro - come confermato dai dati sulla creazione di posti di lavoro anche prima della crisi. E quindi un indebolimento di fatto del lavoro. E qui parliamo semplicemente di relazioni economiche capitale/lavoro, senza neanche entrare nel complesso mondo delle lobby, della politica e del potere delle grandi imprese.


Thursday 20 December 2012

Profitti e salari nell'America del dopo crisi

Ultimamente Paul Krugman ha rilanciato con forza un argomento che l'economia mainstream ha per anni accuratamente evitato: la lotta di classe.
In un recente post Krugman ha fornito qualche dato sul conflitto capitale-lavoro, spiegando come negli ultimi 10 anni la quota salari si sia drasticamente ridotta a vantaggio della remunerazione del capitale.



Il che si traduce molto semplicemente in un arricchimento dei capitalisti e di un impoverimento (relativo) dei lavoratori. Ed infatti, se guardiamo al trend dei profitti delle corporazioni come % del PIL, vediamo che dopo il crollo del 2008, i capitalisti americani hanno fatto più che bene, raggiungendo il massimo degli ultimi 20 anni.


Corporate profits as a percentage of US GDP chart
fonte: http://qz.com/37734/corporations-are-the-people-of-the-year-my-friend/

La cosa è ancora più importante ora, in una situazione di crisi. L'economia si contrae o, al meglio, è stagnante, e quindi l'impoverimento relativo dei lavoratori diventa impoverimento assoluto - in una torta più piccola, la fetta che va al lavoro si è ulteriormente ridotta pure in termini relativi. Mentre i profitti sono cresciuti a dismisura. E ricordiamoci che nella quota lavoro rientrano anche i salari super gonfiati dei grandi manager e dell'industria finanziaria!
In fondo è sempre la stessa storia, la vecchia lotta di classe di marxiana memoria. Chi si prende i proventi del lavoro? Guardando questo grafico, la risposta pare piuttosto ovvia. La crisi la pagano tutta i lavoratori, mentre per le imprese è la solita pacchia. Qualcosa da tenere in considerazione quando si discute di fiscal cliff.