Dopo l'iniziale ubriacatura pro-Monti presa da mezza Italia contenta finalmente di essersi sbarazzata di Berlusconi, la vera natura de nuovo esecutivo sta emergendo prepotentemente. Lo si era già detto, ma è il caso di ripetersi: si tratta di un governo di destra, destra liberale ma pur sempre destra. Per molti aspetti molto più a destra del governo precedente. Per di più con una incapacità direi quasi culturale di capire le ragioni della crisi che può essere paragonata forse solo all'esecutivo inglese, infatti iper-conservatore.
La polemica sull'art.18 è illuminante in questo senso. Tralasciamo pure per un attimo il fatto che in Italia la flessibilità (leggi: precarietà) già esiste, e sorvoliamo sul patetico tentativo di mettere lavoratori contro lavoratori, parlando di apartheid per chi non gode dell'art.18 (sulla brillante soluzione di risolvere questo apartheid discriminando tutti, avevo già commentato in passato).
Quello che in realtà più preoccupa è la giustificazione data da Monti per abolire l'art.18: disincentiva l'arrivo di investimenti stranieri che sono così necessari per far ripartire l'economia. Per un professore di economia, si tratta di un muostroso abbaglio, o più probabilmente di una scandalosa mistificazione. Gli investimenti esteri non vengono in Italia per moltissime ragioni, ma certo la tutela dei lavoratori non è in cima alla lista dei problemi. In Italia c'è una delle burocrazie più inefficienti d'Europa, con costi di transazione altissimi. Esiste una criminalità dilagante, e non solo al Sud. La corruzione è endemica. L'evasione fiscale, oltre ad un danno per lo Stato, distorce il mercato, favorendo le imprese che non pagano le tasse e che quindi hanno costi minori.
Per quanto riguarda il lavoro, il problema non è certo la rigidità in uscita. La produttività del lavoro è bassa perchè c'è pochissimo investimento in capitale umano e la spesa in R&D è tra le più basse del mondo occidentale. Il che si tramuta in assenza di eccellenze e del cosiddetto spill over effect, cioè del vantaggio ambientale, che non è una peculiarità della Silicon Valley ma esisteva pure nel pratese, nel marchigiano, o nel trevigiano quando la nostra economia ancora funzionava, pure in presenza dell'art.18.
In realtà il modello che propone Monti è esattamente l'opposto di quello di cui ha bisogno il paese. Monti vuole un mercato del lavoro senza diritti, possibile da sfruttare al massimo per competere sul prezzo (esattamente quello che è successo negli ultimi 20 anni, in cui l'Italia ha registrato salari da lavoro in decrescita e tra i più bassi d'Europa). In breve, il modello del Sud-Est Asiatico negli anni 70 ed 80, quando le imprese labour intensive e a basso valore aggiunto delocalizzavano dove il lavoro costava di meno. Anche la Cina lo fa, con la differenza che Pechino compra anche i pezzi pregiati dell'industria europea (Volvo) e americana (IBM). Sicuramente non è il caso dell'Italia che rischia di perdere anche le sue poche industrie di punta. E Monti propone di mettersi in concorrenza con l'Indonesia e puntare sul super-sfruttamento del lavoro.
Uno scenario da incubo
La polemica sull'art.18 è illuminante in questo senso. Tralasciamo pure per un attimo il fatto che in Italia la flessibilità (leggi: precarietà) già esiste, e sorvoliamo sul patetico tentativo di mettere lavoratori contro lavoratori, parlando di apartheid per chi non gode dell'art.18 (sulla brillante soluzione di risolvere questo apartheid discriminando tutti, avevo già commentato in passato).
Quello che in realtà più preoccupa è la giustificazione data da Monti per abolire l'art.18: disincentiva l'arrivo di investimenti stranieri che sono così necessari per far ripartire l'economia. Per un professore di economia, si tratta di un muostroso abbaglio, o più probabilmente di una scandalosa mistificazione. Gli investimenti esteri non vengono in Italia per moltissime ragioni, ma certo la tutela dei lavoratori non è in cima alla lista dei problemi. In Italia c'è una delle burocrazie più inefficienti d'Europa, con costi di transazione altissimi. Esiste una criminalità dilagante, e non solo al Sud. La corruzione è endemica. L'evasione fiscale, oltre ad un danno per lo Stato, distorce il mercato, favorendo le imprese che non pagano le tasse e che quindi hanno costi minori.
Per quanto riguarda il lavoro, il problema non è certo la rigidità in uscita. La produttività del lavoro è bassa perchè c'è pochissimo investimento in capitale umano e la spesa in R&D è tra le più basse del mondo occidentale. Il che si tramuta in assenza di eccellenze e del cosiddetto spill over effect, cioè del vantaggio ambientale, che non è una peculiarità della Silicon Valley ma esisteva pure nel pratese, nel marchigiano, o nel trevigiano quando la nostra economia ancora funzionava, pure in presenza dell'art.18.
In realtà il modello che propone Monti è esattamente l'opposto di quello di cui ha bisogno il paese. Monti vuole un mercato del lavoro senza diritti, possibile da sfruttare al massimo per competere sul prezzo (esattamente quello che è successo negli ultimi 20 anni, in cui l'Italia ha registrato salari da lavoro in decrescita e tra i più bassi d'Europa). In breve, il modello del Sud-Est Asiatico negli anni 70 ed 80, quando le imprese labour intensive e a basso valore aggiunto delocalizzavano dove il lavoro costava di meno. Anche la Cina lo fa, con la differenza che Pechino compra anche i pezzi pregiati dell'industria europea (Volvo) e americana (IBM). Sicuramente non è il caso dell'Italia che rischia di perdere anche le sue poche industrie di punta. E Monti propone di mettersi in concorrenza con l'Indonesia e puntare sul super-sfruttamento del lavoro.
Uno scenario da incubo
No comments:
Post a Comment