Monday, 30 April 2012

Il fallimento annunciato dell'austerity

Lo scorso 23 Aprile Eurostat ha rilasciato un suo documento ufficiale con i dati sui conti macroeconimici su Eurozona e EU-27. Vi si attestava che nel 2011 il deficit è diminuito (dal 6.2% del PIL al 4.1% nella zona Euro) ma, al contempo, il debito è aumentato (dall'85.3 all'87.2%).
Cosa è successo? Molto semplicemente è successo che le politiche di austerity hanno peggiorato il debito nonostante siano riuscite a ridurre il deficit. Molti ancora confondono i due termini, il deficit è la differenza, calcolata ogni anno tra entrate ed uscite dello Stato. Per finanziare questa differenza gli Stati si indebitano - emettono titoli del debito pubblico rastrettalando liquidità sui mercati in cambio di una promessa di pagamento. Il debito, dunque, è all'incirca la somma dei deficit passati PIU' gli interessi accumulati sul debito esistente.
Il debito viene comunque calcolato come % del PIL, in quanto altrimenti sarebbe una semplice variabile nominale che aumenta al variare del valore della moneta ed infatti i vari conteggi dell'ammontare del debito lasciano il tempo che trovano, avendo poco significato economico. La sostenibilià del debito si basa su tre variabili, il deficit, i tassi di interesse pagati sul debito stesso e la capacità dell'economia in questione di produrre ricchezza e dunque il debito può diminuire anche in presenza di deficit - se o il PIL cresce ad un ritmo superiore dell'effetto combinato di tassi di interesse e deficit il rapporto debito/Pil scenderà.
Ed infatti tra il 1945 ed il 1955 l'Italia dimezzò il suo debito in termini reali pur senza mai raggiungere il mitico pareggio di bilancio ottenuto solo da Quintino Sella agli albori dello Stato Unitario. Mentre ora, se anche si obbligasse lo Stato ad avere i conti in pari, come si è voluto mettere in Costituzione, non si avrebbe nessuna garanzia di riduzione del debito, essendo il tasso di interesse assai più alto di quello di crescita del PIL.
Le politiche di austerity si sono concentrate solo sul numeratore del nostro rapporto, riducendo il deficit hanno rallentato la crescita nominale del debito ed hanno tentato, inutilmente, di ridurre il tasso di interesse (che dipende, al momento, solo o quasi dai mercati). Queste stesse politiche di austerity hanno però un effetto anche sul denominatore, riducendo al contempo anche la crescita del PIL (o addirittura causando recessione). L'effetto netto sul rapporto debito/PIL è stato dunque negativo.
Non solo, un PIL più debole significa meno entrate fiscali (e maggiori spese in ammortizzatori sociali) con un effetto perverso sui conti pubblici. Paul Krugman ha calcolato che per ogni euro speso in austerity, approssimativamente solo 0.45 centesimi vanno effettivamente alla riduzione del deficit.
La situazione, così come presentata da Martin Wolf, è ancora più cupa:



Il grafico illustra bene la situazione creata dall'austerity. Nei paesi in cui più si è intervenuto con tagli e tasse (Grecia, Irlanda, Italia, Spagna), il PIL tra 2008 e 2012 si è contratto maggiormente. Con poche eccezioni (tipo Malta) si tratta di una relazione costante: ad ogni punto percentuale di riduzione del deficit corrisponde una perdita di 1.5% di PIL.
Le stesse premesse teoriche (la cosiddetta expansionary austerity di Alesina) usate per giustificare il ricorso all'austerity vengono sconfessate da questi dati. Da Osborne alla Merkel a Monti si è scommesso sui tagli perchè questo chiedevano i mercati, perchè questo avrebbe rafforzato la fiducia nelle economie europee e riattivato un ciclo di investimenti nel settore privato. I fatti dicono il contrario. Ma si sa, ogni tanto i fatti sbagliano, le teorie mai.




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