Friday 27 April 2012

La buffa storia del patto per la crescita

Se ne parla sempre, in continuazione: dobbiamo rilanciare la crescita. Lo si diceva negli anni passati, lo si dice a maggior ragione ora che l'economia si inabissa e i conti peggiorano col calo del PIL. Ma come dice la canzone, sembran più che altro "parole, parole, parole".
Qualche mese fa, uno dei primi grandi successi diplomatici del governo Monti, l'asse con la Gran Bretagna per rilanciare l'economia. Oggi, nuovo alleato, la Germania, stesso annuncio: avanti con la crescita. Di sicuro il governo non è fortunato nella scelta dei propri partners. Il fallimentare governo di Cameron e Osborne ha appena riportato l'economia inglese in recessione, il tanto temuto double dip che avevo anticipato 15 mesi fa. Ora siamo passati alla Merkel, cioè una delle principali responsabili della crisi europea, quella dei conti pubblici prima di tutto, a costo di ammazzare l'economia. Forse si tratta solo di sfortuna. O forse no, se leggiamo quello che Monti intende per crescita:

“L’Europa ha bisogno di politiche per l’aumento della crescita potenziale, ed evitare politiche che in modo effimero darebbero l’impressione di lavorare per la crescita. [Bisogna evitare] politiche keynesiane di vecchio stampo che favoriscano l’espansione di deficit di bilancio. La crescita potenziale deve fondarsi sulle riforme strutturali” (http://keynesblog.com/2012/04/26/monti-contro-keynes/)

Cioè non c'è nessun ruolo per lo Stato se non quello di liberare le forze del mercato. Le riforme strutturali devono aiutare le imprese ed incentivarle ad investire di più. Un classico del liberismo ideologico, quello che ha portato alla bancarotta dell'America Latina negli anni 80 e 90, al fallimento della transizione nei paesi dell'Europa Orientale, ai problemi di sottosviluppo in Africa. Mentre l'unico vero esempio di crescita sostenuta (e sostenibile) degli ultimi 30 anni viene dalla Cina, dove lo Stato ha affiancato il mercato, lo ha indirizzato, sostenuto, controllato. Nulla da fare, rimaniamo ancorati alle vecchie teorie, alla legge di Say secondo cui l'offerta crea la propria domanda. Teoria che già Marx, Hobson e Keynes svelarono come basata su nessun fondamento empirico. Nei suoi corsi di economia Monti se ne sarà dimenticato.
Diminuire il costo del lavoro (il vero obiettivo della riforma Fornero) non ha nessun effetto su produzione ed occupazione, come si vede senza difficoltà se si guarda agli ultimi dati OECD. E, ammesso e non concesso che le cosiddette riforme struttuali incentivino la produzione, con la disoccupazione in aumento ed il reddito disponibili ridotto da nuove tasse ed inflazione in aumento, chi dovrebbe acquistare le nuove merci prodotte?
Una domanda cui Monti, purtroppo, si rifiuta di rispondere.
Forse si affida, come già qualcuno prima di lui, all'effetto annuncio. Proviamo a dare fiducia, almeno a parole, e chissà che non si metta in moto un circolo positivo. Peccato che Monti abbia dimenticato un insegnamento fondamentale dei suoi amici liberali, le aspettative razionali degli imprenditori. Che non si fanno prendere in giro.



(http://fingfx.thomsonreuters.com/2011/09/28/08145501a4.htm)

Il grafico è piuttosto chiaro, la business confidence, la fiducia degli imprenditori, non si basa sugli annunci, nè sulle suppose riforme, ma sull'andamento del PIL. Con un PIL in caduta libera, la fiducia nel sistema Italia cala.
La lezione è davanti agli occhi di chi vuole vederla: a forza di finti patti per la crescita si prolunga la crisi e si mette a rischio il potenziale di crescita futura.


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