Monday, 24 December 2012
Made in America: ineguaglianza e monopolio
Recentemente abbiamo discusso i trend nella suddivisione del reddito in America, e come abbiamo visto la quota dei profitti è in ascesa costante, mentre la quota salari è ai minimi storici. Le spiegazioni economiche possono essere di diverso tipo, ma una di grande importanza è quella legata alla trasformazione in senso monopolista dell'economia americana. Questo tipo di argomentazione non solo non dovrebbe sorprendere nessun economista di sinistra, ma dovrebbe essere nel bagaglio intellettuale di qualsiasi economista liberale onesto. Che il monopolismo sia una alterazione della competizione e del libero mercato è cosa che si studia nei corsi base di macro-economia. E che l'economia americana, negli ultimi 30 anni (da Reagan in avanti, oh che sorpresa) sia diventata sempre più monopolista è fatto piuttosto noto, anche se quasi mai discusso (una notevole eccezione è quest'articolo di Lynn e Longman). Quando in questi ultimi decenni si è combattuto in nome del libero mercato, in realtà lo si è sempre fatto nel nome delle grandi compagnie, cioè quelle che alterano il mercato (non a caso, in Italia, il più grande paladino, a parole, del liberismo è stato il Monopolista per eccellenza, Berlusconi). Libertà d'impresa, infatti, non è sinonimo di libero mercato: perchè esista un vero mercato competitivo lo Stato deve attivamente abbattere monopoli e cartelli. Il che garantisce libertà d'entrata - cioè le piccole compagnie possono competere liberamente perchè i prezzi non sono fatti da altre compagnie (price-maker) ma sono il risultato di una competizione libera. Ma garantisce anche la libertà d'uscita, cioè la possibilità del fallimento di alcune imprese senza che questa metta a repentaglio un intero settore industriale (vedi il caso ILVA) quando non proprio l'economia nel suo complesso (è, ovviamente, il caso delle grandi banche o assicurazioni).
La crescita del monopolio non ha effetti solo sulla competizione tra imprese, ma, ovviamente, anche nella distribuzione del reddito e nell'influenza politica esercitata dal grande capitale. Le compagnie monopoliste bloccano la competizione e corrompono il mercato. E dunque non hanno un impatto solo sui prezzi al consumo, ma anche sul mercato del lavoro, soprattutto riducendo l'occupazione. Controllando il mercato, i monopolisti non hanno interesse ad espandere la produzione, stabilendo un equilibrio inefficiente sul mercato, caratterizzato da prezzi più alti e occupazione più bassa. Non investono, o investono meno, in ricerca e sviluppo, che è notoriamente una fonte importante di molti posti di lavoro. Bloccano l'entrata delle piccole compagnie sul mercato. E bloccano lo sviluppo di quelle piccole e medie già esistenti su segmenti di mercato collegati - la supply chain - perché possono imporre prezzi e quantità ai loro fornitori. Il tutto con un effetto netto di un perdita netta di posti di lavoro - come confermato dai dati sulla creazione di posti di lavoro anche prima della crisi. E quindi un indebolimento di fatto del lavoro. E qui parliamo semplicemente di relazioni economiche capitale/lavoro, senza neanche entrare nel complesso mondo delle lobby, della politica e del potere delle grandi imprese.
Thursday, 20 December 2012
Profitti e salari nell'America del dopo crisi
Ultimamente Paul Krugman ha rilanciato con forza un argomento che l'economia mainstream ha per anni accuratamente evitato: la lotta di classe.
In un recente post Krugman ha fornito qualche dato sul conflitto capitale-lavoro, spiegando come negli ultimi 10 anni la quota salari si sia drasticamente ridotta a vantaggio della remunerazione del capitale.
Il che si traduce molto semplicemente in un arricchimento dei capitalisti e di un impoverimento (relativo) dei lavoratori. Ed infatti, se guardiamo al trend dei profitti delle corporazioni come % del PIL, vediamo che dopo il crollo del 2008, i capitalisti americani hanno fatto più che bene, raggiungendo il massimo degli ultimi 20 anni.
fonte: http://qz.com/37734/corporations-are-the-people-of-the-year-my-friend/
La cosa è ancora più importante ora, in una situazione di crisi. L'economia si contrae o, al meglio, è stagnante, e quindi l'impoverimento relativo dei lavoratori diventa impoverimento assoluto - in una torta più piccola, la fetta che va al lavoro si è ulteriormente ridotta pure in termini relativi. Mentre i profitti sono cresciuti a dismisura. E ricordiamoci che nella quota lavoro rientrano anche i salari super gonfiati dei grandi manager e dell'industria finanziaria!
In fondo è sempre la stessa storia, la vecchia lotta di classe di marxiana memoria. Chi si prende i proventi del lavoro? Guardando questo grafico, la risposta pare piuttosto ovvia. La crisi la pagano tutta i lavoratori, mentre per le imprese è la solita pacchia. Qualcosa da tenere in considerazione quando si discute di fiscal cliff.
In un recente post Krugman ha fornito qualche dato sul conflitto capitale-lavoro, spiegando come negli ultimi 10 anni la quota salari si sia drasticamente ridotta a vantaggio della remunerazione del capitale.
Il che si traduce molto semplicemente in un arricchimento dei capitalisti e di un impoverimento (relativo) dei lavoratori. Ed infatti, se guardiamo al trend dei profitti delle corporazioni come % del PIL, vediamo che dopo il crollo del 2008, i capitalisti americani hanno fatto più che bene, raggiungendo il massimo degli ultimi 20 anni.
fonte: http://qz.com/37734/corporations-are-the-people-of-the-year-my-friend/
La cosa è ancora più importante ora, in una situazione di crisi. L'economia si contrae o, al meglio, è stagnante, e quindi l'impoverimento relativo dei lavoratori diventa impoverimento assoluto - in una torta più piccola, la fetta che va al lavoro si è ulteriormente ridotta pure in termini relativi. Mentre i profitti sono cresciuti a dismisura. E ricordiamoci che nella quota lavoro rientrano anche i salari super gonfiati dei grandi manager e dell'industria finanziaria!
In fondo è sempre la stessa storia, la vecchia lotta di classe di marxiana memoria. Chi si prende i proventi del lavoro? Guardando questo grafico, la risposta pare piuttosto ovvia. La crisi la pagano tutta i lavoratori, mentre per le imprese è la solita pacchia. Qualcosa da tenere in considerazione quando si discute di fiscal cliff.
Wednesday, 19 December 2012
La Tobin Tax e l'ennesima bufala del governo
Governo dimissionario, ma pur sempre in grado di far danni. Alla fine della settimana scorsa l'esecutivo ha proposto un emendamento sulla cosiddetta Tobin Tax, la tassa sulla transazioni finanziarie. Un emendamento, non c'era da dubitarne, per annacquare la tassa e fare l'ennesimo favore alle banche. Per prima cosa si è deciso di non tassare tutte le transazioni, come si era inizialmente proposto, ma solo di tassare il saldo a fine giornata, lasciando così libertà di speculare allegramente durante il giorno (e se l'idea era ridurre il volume delle transazioni, cioè quello proposto da Tobin stesso, ovviamente si sta andando in direzione opposta!). Non contento, il governo ha deciso che l'imposta in questione sia limitata al mercato azionario, ignorando quello dei tassi e dei cambi, dove c'è la vera ciccia. Una vera e propria debacle per la Tobin Tax. Come spiega efficacemente Mucchetti sul Corriere della Sera, da una base imponibile pari a 7 volte il nostro Pil, il governo si propone di raggiungere un gettito di 1 miliardo, ma che più realisticamente si ridurrà a 250 milioni. Un'inezia che non serve a nulla per i nostri conti, e che nulla fa per diminuire la speculazione. L'ennesima entrata a gamba tesa di un governo tutto attento a non toccare i forti, ma sempre pronto a prendersela con i deboli.
Thursday, 13 December 2012
Cosa succede al Fondo Monetario Internazionale?
Per almeno 20 anni il Fondo Monetario Internazionale è stato il simbolo di tutto quello che c'era di sbagliato nella globalizzazione neo-liberista. La condizionalità, i programmi di aggiustamento strutturali, le politiche monetariste a tutti i costi che distrussero le economie asiatiche nel 1997, le privatizzazioni selvagge in Russia e nell'Europa dell'Est dopo la caduta del Muro, il potere delle burocrazie e dei mercati che sovrastava quello di governi democraticamente eletti: tutte scelte che si sono dimostrate sbagliate, quando non proprio disastrose, nel medio periodo.
Il Fondo, probabilmente al di là delle sue pur oggettive responsabilità, è stato dunque descritto come il falco, l'ala più estremista dei cosiddetti globalizzatori. Ora, invece, l'IMF sembra essersi velocemente trasformato nella colomba dei mercati finanziari. Gli economisti del Fondo, dopo un iniziale supporto, hanno rigettato l'austerity, spiegando che i calcoli inizialmente effettuati sul moltiplicatore erano sbagliati. Non solo, già in precedenza era stata rigettata la tesi di Alesina che si potesse avere una austerity espansiva. Ma non basta. Durante gli ultimi negoziati sul finanziamento del debito greco il Fondo ha preso una posizione molto coraggiosa: la UE voleva dare due anni in più alla Grecia per ripagare il debito, ma il Fondo si è opposto. L'IMF ha sostenuto che il debito greco non era comunque sostenibile e che si sarebbe dovuto procedere ad una ristrutturazione invece che allungare i tempi di rientro.
Ed infine, sorpresa sorpresa, il Fondo ha cambiato opinione sulla sua bandiera storica, i movimenti di capitale. Durante gli anni 80 e 90, ed anche nell'ultimo decennio, all'IMF hanno strenuamente sponsorizzato la liberalizzazione dei mercati finanziari, sostenendo che questa avrebbe fornito capitali ai paesi in via di sviluppo e migliorato l'efficienza dell'economia mondiale. Come sappiamo, non è andata proprio così. Ora se ne rende conto anche il Fondo che fa marcia indietro. Si tratta di una posizione ancora molto timida, che semplicemente spiega come nelle economie in via di sviluppo la mancanza di controlli sui capitali possa creare bolle speculative destinate poi a scoppiare e mettere in difficoltà quei paesi. Ma si rifiuta ancora di considerare la speculazione come una forza destabilizzatrice e che ha ben poco di razionale. Meglio che niente, comunque.
Non si tratta certo di una rivoluzione, ma di primi passi di allontanamento da un modello economico evidentemente fallimentare. Se lo hanno capito anche gli economisti ideologizzati dal Fondo, come mai i politici europei non se ne sono ancora resi conto?
Il Fondo, probabilmente al di là delle sue pur oggettive responsabilità, è stato dunque descritto come il falco, l'ala più estremista dei cosiddetti globalizzatori. Ora, invece, l'IMF sembra essersi velocemente trasformato nella colomba dei mercati finanziari. Gli economisti del Fondo, dopo un iniziale supporto, hanno rigettato l'austerity, spiegando che i calcoli inizialmente effettuati sul moltiplicatore erano sbagliati. Non solo, già in precedenza era stata rigettata la tesi di Alesina che si potesse avere una austerity espansiva. Ma non basta. Durante gli ultimi negoziati sul finanziamento del debito greco il Fondo ha preso una posizione molto coraggiosa: la UE voleva dare due anni in più alla Grecia per ripagare il debito, ma il Fondo si è opposto. L'IMF ha sostenuto che il debito greco non era comunque sostenibile e che si sarebbe dovuto procedere ad una ristrutturazione invece che allungare i tempi di rientro.
Ed infine, sorpresa sorpresa, il Fondo ha cambiato opinione sulla sua bandiera storica, i movimenti di capitale. Durante gli anni 80 e 90, ed anche nell'ultimo decennio, all'IMF hanno strenuamente sponsorizzato la liberalizzazione dei mercati finanziari, sostenendo che questa avrebbe fornito capitali ai paesi in via di sviluppo e migliorato l'efficienza dell'economia mondiale. Come sappiamo, non è andata proprio così. Ora se ne rende conto anche il Fondo che fa marcia indietro. Si tratta di una posizione ancora molto timida, che semplicemente spiega come nelle economie in via di sviluppo la mancanza di controlli sui capitali possa creare bolle speculative destinate poi a scoppiare e mettere in difficoltà quei paesi. Ma si rifiuta ancora di considerare la speculazione come una forza destabilizzatrice e che ha ben poco di razionale. Meglio che niente, comunque.
Non si tratta certo di una rivoluzione, ma di primi passi di allontanamento da un modello economico evidentemente fallimentare. Se lo hanno capito anche gli economisti ideologizzati dal Fondo, come mai i politici europei non se ne sono ancora resi conto?
Wednesday, 12 December 2012
La UE fuori dalla realtà
L'articolo di qualche giorno fa del commissario europeo Olli Rehn, responsabile per gli affari economici e monetari della UE, è un manifesto della stupidità dell'Unione. Non si possono davvero usare altre parole.
Il commissario chiede di continuare con ancora maggiore austerity. Nel primo pezzo dell'articolo spiega come l'austerity stia funzionando benone, e di fatti l'Irlanda è tornata a raccogliere prestiti sui mercati, più capitale si è mosso verso la Spagna e lo spread per l'Italia è diminuito. Ma il commissario non accenna neppure alla disoccupazione in aumento in tutti i PIIGS, alla povertà, alla recessione. Più che Commissario agli affari economici, forse questo Rehn pensa di essere un broker finanziario. Totalmente inadeguato al ruolo di responsabilità che ricopre.
La seconda parte è altrettanto risibile. Si dice, in sostanza, che il peso del riequilibrio dei conti europei deve ricadere tutto sui paesi in difficoltà. Tutta colpa dei debitori, i creditori possono sedere in riva al fiume e aspettare il cadavere dei nemici. Si cita addirittura a sproposito Keynes, evidentemente letto su un Bignami, versione finlandese. L'idea balzana è che per ridurre i disavanzi commerciali bisogna obbligare i paesi debitori ad una svalutazione interna (leggi, salari bassi e disoccupazione) mentre una politica inflattiva nei paesi creditori avrebbe effetti molto minori - la Germania comprerebbe comunque beni e servizi in Polonia ma non in Spagna. Ma allora a cosa serve aumentare la competitività spagnola? In realtà si vuole impoverire quel paese in maniera tale da indurlo ad importare meno!
Il finale è una chicca: si sostiene che la Germania, applicando una austerity più ridotta rispetto agli altri paesi europei, sarà comunque in una situazione di de facto stimolo fiscale. Roba da matti. Il fatto di tagliare relativamente meno le spese non renderà i tedeschi più ricchi, e quindi più inclini a spendere e dunque ad aumentare le importazioni dal sud Europa. Non capire la differenza tra meno poveri e più ricchi è veramente patetico.
E' grazie a personaggi di questo genere che l'Europa sta andando a fondo. Ma Rehn non se ne è neppure accorto. Tutto va bene, nel paese delle meraviglie dove il Commissario-regina di cuori taglia la testa dei lavoratori europei. Continuiamo a farci del male!
Il commissario chiede di continuare con ancora maggiore austerity. Nel primo pezzo dell'articolo spiega come l'austerity stia funzionando benone, e di fatti l'Irlanda è tornata a raccogliere prestiti sui mercati, più capitale si è mosso verso la Spagna e lo spread per l'Italia è diminuito. Ma il commissario non accenna neppure alla disoccupazione in aumento in tutti i PIIGS, alla povertà, alla recessione. Più che Commissario agli affari economici, forse questo Rehn pensa di essere un broker finanziario. Totalmente inadeguato al ruolo di responsabilità che ricopre.
La seconda parte è altrettanto risibile. Si dice, in sostanza, che il peso del riequilibrio dei conti europei deve ricadere tutto sui paesi in difficoltà. Tutta colpa dei debitori, i creditori possono sedere in riva al fiume e aspettare il cadavere dei nemici. Si cita addirittura a sproposito Keynes, evidentemente letto su un Bignami, versione finlandese. L'idea balzana è che per ridurre i disavanzi commerciali bisogna obbligare i paesi debitori ad una svalutazione interna (leggi, salari bassi e disoccupazione) mentre una politica inflattiva nei paesi creditori avrebbe effetti molto minori - la Germania comprerebbe comunque beni e servizi in Polonia ma non in Spagna. Ma allora a cosa serve aumentare la competitività spagnola? In realtà si vuole impoverire quel paese in maniera tale da indurlo ad importare meno!
Il finale è una chicca: si sostiene che la Germania, applicando una austerity più ridotta rispetto agli altri paesi europei, sarà comunque in una situazione di de facto stimolo fiscale. Roba da matti. Il fatto di tagliare relativamente meno le spese non renderà i tedeschi più ricchi, e quindi più inclini a spendere e dunque ad aumentare le importazioni dal sud Europa. Non capire la differenza tra meno poveri e più ricchi è veramente patetico.
E' grazie a personaggi di questo genere che l'Europa sta andando a fondo. Ma Rehn non se ne è neppure accorto. Tutto va bene, nel paese delle meraviglie dove il Commissario-regina di cuori taglia la testa dei lavoratori europei. Continuiamo a farci del male!
Friday, 7 December 2012
L'inesistente relazione tra spread e austerity
Un bel grafico postato da Krugman sul NYT illustra alla perfezione l'ondata ideologica e propagandistica che ha invaso il dibattito politico ed economico in Europa e USA negli ultimi 3 anni.
In blu vediamo l'andamento dei tassi di interesse inglesi, in rosso quelli americani. Sono incredibilmente simili. Peccato però che i 2 paesi abbiano seguito politiche fiscali completamente diverse. Gli USA di Obama hanno foraggiato la ripresa economica e sono ora davanti al bivio del fiscal cliff con la minaccia delle rating agency di svalutare i bond americani se non ci fosse una stretta fiscale. Al contrario in UK il governo di coalizione ha imposto un'austerity a tutto spiano, rivendicandone i successi proprio in virtù di tassi di interesse molto bassi - mentre l'economia reale rimaneva risucchiata in un vortice restrittivo.
La realtà è che non è certo l'austerity (o la sua mancanza) a determinare i tassi di interesse o il cosiddetto spread. Come avevamo già detto, in America i tassi di interesse sui bond addirittura calarono dopo il downgrade del 2011. I tassi di interesse rimangono bassi perché i due paesi in questione sono monetariamente indipendenti e le due banche centrali possono stampare quanta moneta vogliono - non falliranno dunque mai, a meno che non lo vogliano.
A noi invece, proprio in virtù del potere dello spread, sono state imposte politiche di austerity che hanno ucciso la nostra economia, aumentato la disoccupazione, impoverito i lavoratori, tartassato i pensionati. Il tutto in nome di uno spread che è stato abbassato solo dall'intervento di Draghi. Eppure continuiamo ad andare nella direzione dei tagli, senza nessuna vera giustificazione....
In blu vediamo l'andamento dei tassi di interesse inglesi, in rosso quelli americani. Sono incredibilmente simili. Peccato però che i 2 paesi abbiano seguito politiche fiscali completamente diverse. Gli USA di Obama hanno foraggiato la ripresa economica e sono ora davanti al bivio del fiscal cliff con la minaccia delle rating agency di svalutare i bond americani se non ci fosse una stretta fiscale. Al contrario in UK il governo di coalizione ha imposto un'austerity a tutto spiano, rivendicandone i successi proprio in virtù di tassi di interesse molto bassi - mentre l'economia reale rimaneva risucchiata in un vortice restrittivo.
La realtà è che non è certo l'austerity (o la sua mancanza) a determinare i tassi di interesse o il cosiddetto spread. Come avevamo già detto, in America i tassi di interesse sui bond addirittura calarono dopo il downgrade del 2011. I tassi di interesse rimangono bassi perché i due paesi in questione sono monetariamente indipendenti e le due banche centrali possono stampare quanta moneta vogliono - non falliranno dunque mai, a meno che non lo vogliano.
A noi invece, proprio in virtù del potere dello spread, sono state imposte politiche di austerity che hanno ucciso la nostra economia, aumentato la disoccupazione, impoverito i lavoratori, tartassato i pensionati. Il tutto in nome di uno spread che è stato abbassato solo dall'intervento di Draghi. Eppure continuiamo ad andare nella direzione dei tagli, senza nessuna vera giustificazione....
Tuesday, 4 December 2012
La pillola avvelenata dei liberali
Zingales non ci delude mai. Il suo ultimo post su Project Syndicate dice tutto della alta concezione della democrazia che hanno i liberali. L'articolo è dedicato ai possibili problemi dell'OMT - outright monetary transactions - cioè il meccanismo per cui si potranno comprare bond dei paesi europei in difficoltà, così da tenere sotto controllo lo spread.
Zingales identifica con efficacia i limiti di questo meccanismo, la solita paccottiglia iper-burocratica scaturita dalla UE, una cosa bellissima che richiede che i parlamenti degli stati ricchi votino sull'esautorare di fatto i parlamenti degli stati poveri. Cioè tu sei in difficoltà, chiedi i soldi: noi ricchi ci riuniamo, decidiamo democraticamente, e se ti diamo i soldi poi decidiamo anche tutto quello che farai te d'ora in avanti. Sovranità limitata.
Ma Zingales di questo non si scandalizza, anzi. Teme le difficoltà politiche, non l'obbrobrio istituzionale. Ed infatti se ne esce con un commento geniale. Monti dovrebbe chiedere ora i fondi per l'Italia. Partirebbe così il programma di riforme strutturali decise dall'Europa in cambio di fondi e si eviterebbe qualsiasi dubbio riguardo le prossime elezioni. Il prossimo governo avrebbe letteralmente la mani legate (triggering the OMT in advance... would tie the hands of any future Italian government), con un programma già scritto all'estero e sottoscritto dallo governo uscente. Mica male, il sogno di Napolitano, probabilmente.
Una bella pillola avvelenata per evitare qualsiasi tipo brutta sorpresa alle prossime elezioni, perché si sa, questi elettori, soprattutto quando disoccupati e ridotti alla povertà, potrebbero avere qualche grillo per la testa.
Sempre lucido Zingales, in effetti e coerente con quello che i suoi maestri, tipo il Friedman che sosteneva Pinochet, gli hanno insegnato. Meglio però che rimanga a Chicago a insegnare economia, chè di democrazia ne capisce davvero poco.
Zingales identifica con efficacia i limiti di questo meccanismo, la solita paccottiglia iper-burocratica scaturita dalla UE, una cosa bellissima che richiede che i parlamenti degli stati ricchi votino sull'esautorare di fatto i parlamenti degli stati poveri. Cioè tu sei in difficoltà, chiedi i soldi: noi ricchi ci riuniamo, decidiamo democraticamente, e se ti diamo i soldi poi decidiamo anche tutto quello che farai te d'ora in avanti. Sovranità limitata.
Ma Zingales di questo non si scandalizza, anzi. Teme le difficoltà politiche, non l'obbrobrio istituzionale. Ed infatti se ne esce con un commento geniale. Monti dovrebbe chiedere ora i fondi per l'Italia. Partirebbe così il programma di riforme strutturali decise dall'Europa in cambio di fondi e si eviterebbe qualsiasi dubbio riguardo le prossime elezioni. Il prossimo governo avrebbe letteralmente la mani legate (triggering the OMT in advance... would tie the hands of any future Italian government), con un programma già scritto all'estero e sottoscritto dallo governo uscente. Mica male, il sogno di Napolitano, probabilmente.
Una bella pillola avvelenata per evitare qualsiasi tipo brutta sorpresa alle prossime elezioni, perché si sa, questi elettori, soprattutto quando disoccupati e ridotti alla povertà, potrebbero avere qualche grillo per la testa.
Sempre lucido Zingales, in effetti e coerente con quello che i suoi maestri, tipo il Friedman che sosteneva Pinochet, gli hanno insegnato. Meglio però che rimanga a Chicago a insegnare economia, chè di democrazia ne capisce davvero poco.
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