Slogan da anni 60, riadattato per l'evenienza da Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. Intervistata dal Guardian la signora ha fatto ben capire l'opinione corrente nellla trojka riguardo la Grecia. Ad Atene i cittadini non hanno pagato le tasse e fatto bagordi per anni, ora si tratta di pagare - pay back - o forse più appropriatamente di fargliela pagare.
Lagarde non è interessata che i greci non abbiano più accesso all'assitenza sanitaria, lei si preoccupa dei bambini in Niger che muoiono di fame. Santa donna. Ma si preoccupa pure, con forse più zelo, dei conti delle banche che vengono costantemente rimpinguati dai fondi di salvataggio che sborsa il Fondo. Cosa puntualmente fatta da Lagarde stessa all'inizio del suo mandato, soprattutto per salvare le banche francesi impelagate in Grecia. Ma si sa, per quest'ultime l'ora di pagare non arriva mai.
Anzi, sarà interessante vedere cosa pensa Lagarde della situazione spagnola, con lo stato che per salvare Bankia aumenterà il debito di 19 miliardi di euro finanziati da titoli pubblici mentre già si parla di altri 30 miliardi per salvare altri istituti. Tutti pagati dai cittadini spagnoli, mentre vengono pure tagliati i servizi pubblici.
Quella del Fondo si tratta ovviamente di una minaccia, quasi di una ritorsione contro il popolo greco che si permette di ribellarsi ai diktat dei padroni. Stia attenta Lagarde che la storia ha insegnato che, a tirare troppo la corda, prima o poi si spezza. E forse allora a pagare saranno lei e quelli come lei.
Tuesday, 29 May 2012
Thursday, 24 May 2012
E se fosse la Germania ad uscire dall'Euro?
Capisco che sembra una proposta assurda, ma al momento potrebbe essere la soluzione che arreca meno danni.
La Germania è ormai isolata in Europa, se dobbiamo dare retta ai resoconti dei giornali. Italia e Francia fanno fronte comune sugli euro-bond che non possono che essere ben accetti da tutti gli altri paesi in difficoltà, dal Portogallo alla Grecia all'Irlanda. Si tratta della netta maggioranza dell'area Euro, ma Berlino continua a porre il veto. Non vogliono mettere i loro soldi a disposizione dei fannulloni dell'Europa meridionale.
Ma ormai è chiaro che le misure di austerity sono fallite ovunque e che i mercati finanziari continuano a non aver fiducia nei PIGS, nonostante il fiscal compact, nonostate l'austerity. Anzi, ho mostrato nei giorni precedenti che ai mercati dell'austerity non importa nulla. Il problema dell'Europa meridionale è che non è credibile non per i conti in dissesto ma perchè non ha controllo sulla sua politica monetaria, cioè una banca centrale come prestatrice di ultima istanza e gli Eurobond per riscattare i debiti nazionali.
Di questo passo si va veloci verso la distruzione dell'Euro, e la Germania sarà comunque destinata a rimanre sola o quasi. I paesi che usciranno dall'Euro, invece, soffriranno di gravissime ripercussioni:
Insomma, se l'Europa non si può salvare, soprattutto per i veti della Merkel, allora meglio che sia la Germania a mollare la barca per prima.
Update, 27 maggio
Apparentemente non sono l'unico a pensarla così. Anche membri della comunità finanziaria cominciano a pensare che il ritorno al Marco sia l'unica via d'uscita per risolvere non solo i problemi di debito ma anche quelli strutturali dell'eurozona:
http://www.nakedcapitalism.com/2011/05/marshall-auerback-to-save-the-euro-germany-has-to-quit-the-eurozone.html
La Germania è ormai isolata in Europa, se dobbiamo dare retta ai resoconti dei giornali. Italia e Francia fanno fronte comune sugli euro-bond che non possono che essere ben accetti da tutti gli altri paesi in difficoltà, dal Portogallo alla Grecia all'Irlanda. Si tratta della netta maggioranza dell'area Euro, ma Berlino continua a porre il veto. Non vogliono mettere i loro soldi a disposizione dei fannulloni dell'Europa meridionale.
Ma ormai è chiaro che le misure di austerity sono fallite ovunque e che i mercati finanziari continuano a non aver fiducia nei PIGS, nonostante il fiscal compact, nonostate l'austerity. Anzi, ho mostrato nei giorni precedenti che ai mercati dell'austerity non importa nulla. Il problema dell'Europa meridionale è che non è credibile non per i conti in dissesto ma perchè non ha controllo sulla sua politica monetaria, cioè una banca centrale come prestatrice di ultima istanza e gli Eurobond per riscattare i debiti nazionali.
Di questo passo si va veloci verso la distruzione dell'Euro, e la Germania sarà comunque destinata a rimanre sola o quasi. I paesi che usciranno dall'Euro, invece, soffriranno di gravissime ripercussioni:
- svalutazione,
- inflazione galoppante,
- impossibilità di pagare i debiti internazionali,
- probabile fallimento del sistema bancario.
- Il nuovo marco tedesco si apprezzerebbe fortemente, e l'euro si svaluterebbe, e questo contribuirebbe a riequilibrare la perdita di competitività subita dalle principali economie europee nei confronti della Germania negli ultimi 10 anni (ho già fatto vedere qui quale sia stato l'andamento del costo del lavoro unitario). Svalutazione e apprezzamento sarebbero però assa più ridotti che nel caso di uscita dei PIGS e l'impatto inflattivo sarebbe meno traumatico.
- Il debito dell'Europa sarebbe ancora denominato in Euro, quindi non ci sarebbero problemi nel pagarlo mentre ovviamente i tedeschi perderebbero un pò di soldi con la svalutazione, ma comunque in questi ultimi anni hanno già fortemente disinvestito nel resto d'Europa. E sarebbe comunque meglio per le banche tedesche subire delle perdite dalla svalutazione dell'euro che il fallimento completo degli stati e delle banche loro debitrici.
- Ma soprattutto la nuova unione monetaria senza la Germania, di sicuro molto più omogenea economicamente, potrebbe modificare le sue istituzioni: la BCE potrebbe diventare una vera banca centrale con un potere di fuoco tale da zittire immediatamente i mercati con conseguente scomparsa dello spread. Gli Eurobond, garantiti sempre dalla BCE, riddurrebbero l'indebitamento delle economie più in difficoltà, mentre la nuova area monetaria sarebbe comunque affidabile economicamente, guidata ovviamente da Parigi ma comunque senza un dominus come quello tedesco.
Insomma, se l'Europa non si può salvare, soprattutto per i veti della Merkel, allora meglio che sia la Germania a mollare la barca per prima.
Update, 27 maggio
Apparentemente non sono l'unico a pensarla così. Anche membri della comunità finanziaria cominciano a pensare che il ritorno al Marco sia l'unica via d'uscita per risolvere non solo i problemi di debito ma anche quelli strutturali dell'eurozona:
http://www.nakedcapitalism.com/2011/05/marshall-auerback-to-save-the-euro-germany-has-to-quit-the-eurozone.html
Tuesday, 22 May 2012
Ma abbiamo veramente bisogno dell'austerity?
In questi mesi ho spiegato diverse volte come l'austerity sia controproducente in quanto induce la recessione ed aggrava di conseguenza lo stato delle finanze pubbliche. C'è anche un altro aspetto che va però approfondito, ovvero la supposta necessità di questa austerity per rassicuare i mercati e ridurre lo spread. Questo è quanto hanno spiegato per 3 anni la UE, la Germania e pure, negli ultimi 6 mesi, il governo Monti.
Il ragionamento è semplice. I conti pubblici in disordine spaventano i mercati che vendono titoli del debito, aumentando i tassi di interesse. I dati macroeconomici fondamentali sono, in questo caso, il deficit (altissimo in Spagna, molto basso in Italia) e lo stock di debito (alto in Italia ed in Grecia, ma più contenuto altrove). Mettendo mano a questi conti, si potrà rassicurare il mercato, ammettendo per pura ipotesi di scuola che l'austerity davvero possa migliorare deficit e e debito e non, invece, peggiorarli.
Il problema in questo ragionamento si trova in ciò che ho già accennato ieri.
Non esiste nessuna relazione tra tassi di interesse e debito. O meglio,
esiste, pur fioca, ma di segno contrario a quello che ci hanno
spiegato.
fonte: http://www.businessinsider.com/japan-is-never-going-to-default-2012-5 |
Come si vede a debito più alto in realtà tende a corrispondere un
tasso di interesse più basso (con la Grecia come unica vera eccezione,
statisticamente irrilevante). Nel caso degli Stati Uniti (sotto), poi, i dati
sono eclatanti. Ad un aumento del debito corrisponde una decisa riduzione dei tassi di interesse.
fonte: http://www.businessinsider.com/japan-is-never-going-to-default-2012 |
Dunque il problema non è il debito e non è neppure il deficit. O quantomeno, al di fuori dell'area euro, deficit e debito non sono problemi urgenti da richiedere una dose massiccia di austerity per ridare fiducia ai mercati. Ma se è così, allora perchè non fissare i problemi legati alla governance dell'euro-zona invece di concentrarsi su variabili che, in condizioni normali, non sarebbero preoccupanti?
Monday, 21 May 2012
La UE in crisi
I risultati delle ultime elezioni in
diversi paesi del continente hanno fatto emergere un forte discontento verso le
istituzioni europee. In alcuni casi sono in crescita partiti che rigettano
l’idea stessa di Europa unita e la moneta unica, dal Front National francese ai
nazisti greci fino al KKE greco ed, in parte, il movimento 5 stelle italiano.
In altri, si rafforzano partiti che pur volendo mantenere l’Euro e l’Europa
unita, sono sempre più insofferenti alle politiche economiche della UE, come
nel caso del Front de Gauche francese, Syriza e diversi altri partiti greci. Lo
stesso successo di Hollande in Francia avviene con una campagna molto dura nei
confronti delle politiche europee degli ultimi anni, a partire dal fiscal
compact.
Questi risultati non possono sorprendere,
se si guarda alla situazione economica che attanaglia il Vecchio Continente.
Sono due anni ormai che si passa di vertice in vertice per “salvare” la Grecia,
salvo poi ritrovarsi con lo stesso problema dopo appena pochi mesi. Intanto il
contagio si allarga, dopo Irlanda e Portogallo ora è la Spagna ad essere finita
nell’occhio del ciclone. La risposta europea – ma sarebbe meglio dire tedesca –
è stata semplicemente: rigore, rigore, rigore. Un rigore che sempre più economisti
giudicano in maniera negativa in quanto non solo non ha arginato la crisi, ma
anzi, l’ha fomentata.
Fino ad ora, si è scelta una via ideologica,
massimalista e spesso punitiva. La Germania, sempre fedele alla sua politica
basata sull’ordo-liberalismo ha richiesto agli stati in difficoltà di ridurre
il proprio tenore di vita e tirare la cinghia. Si è detto che la Grecia avesse
sperperato per anni ed un po’ di austerity l’avrebbe rimessa in ordine. Ma la
medicina sta ammazzando il malato e spingendo la penisola ellenica ai margini,
se non direttamente fuori dalla UE. E alla Spagna certo non si possono muovere
le stesse critiche fatte ad Atene, eppure la situazione economica e sociale sta
diventando esplosiva – basta guardare i dati sulla disoccupazione giovanile.
In realtà sono stati sottovalutati alcuni
dati importanti, come la perdita di competitività che i paesi del Sud Europa
hanno patito dall’entrata in vigore dell’euro rispetto ai propri corrispettivi
del Nord. Problemi strutturali che vanno
oltre la retorica delle formiche contro le cicale.
La soluzione prospettata dall’austerity è
quella di una deflazione interna dei paesi più in difficoltà che solo così
possono recuperare competitività. Ma si tratta di una soluzione vecchia, quella
del Gold Standard che fallì miseramente tra le due guerre mondiali proprio in
virtù delle tensioni sociali che provocava. Ed una soluzione, per di più, poco
democratica, perché nessun paese può essere disposto a votare per la riduzione
dei propri salari e l’aumento della disoccupazione.
Insomma, come affermato recentemente dal
presidente della Consob, Vegas, la dittatura dello spread sta stringendo la
democrazia in un angolo da cui non sembra esserci via d’uscita. E le
istituzioni europee, a torto o ragione, si sono fatte portavoce dei desiderata
del mercato e del potere degli stati più forti, dimostrando troppa poca
attenzione ai bisogni dei cittadini. Anche davanti al rischio di una fine
traumatica dell’Europa, ci si continua ostinatamente ad opporre a misure comuni,
come gli Eurobond. Eppure paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ed il
Giappone in passato, hanno situazioni di debito paragonabili se non peggiori a
quelle europee, eppure riescono a collocare i propri titoli sul mercato a
prezzi bassissimi, più bassi infatti dell’inizio della crisi.
I mercati sembrano infatti consapevoli che
uno Stato con il controllo della propria politica monetaria non può fallire e
dunque anche livelli di debito molto alti non sono visti con sospetto. Al
contrario, quello che si teme in Europa è la recessione e l’illiquidità degli
stati europei.
Tutto questo dovrebbe portare ad un
ripensamento generale dell’architettura europea. Una commissione che rappresenti il volere dei
popoli sarebbe certamente vista come meno elitaria e prona agli interessi dei
mercati. Una Banca Centrale “normale” che garantisca la solvenza degli stati
potrebbe riportare la calma sui mercati finanziari. Ed una presidenza vera,
eletta e con poteri effettivi, riavvicinerebbe le istituzioni europee ai propri
cittadini. Si tratterebbe, senza mezzi termini, di andare oltre ad una unione
di stati, per consentire una vera democratizzazione delle istituzioni
continentali. L’alternativa, in questi giorni, sembra la disgregazione del
progetto europeo, stretto tra rigetto popolare e crisi economica.
Tuesday, 15 May 2012
Le banche nell'occhio del ciclone, di nuovo
Tutti ricordano che la grande crisi del 2007-08 iniziò dal fallimento di diversi istituti finanziari, da Northern Rock a Bear Strearns fino a Lehman Brothers e che questa immediatamente si propagò al resto del settore finanziario e poi all'economia reale. In quegli anni era condivisa l'idea che una riforma di tutto il sistema fosse una necessità impellente per evitare il ripetersi di un'altra crisi di tale portata. Ma col passare del tempo nulla o quasi è stato fatto e sembra che ci siamo dimenticati presto delle lezioni della crisi, tutti concentrati ad addebitare i problemi dell'economia mondiale agli stati, come se fossero stati loro la causa della cataclisma finanziario.
In realtà l'ultima settimana ha riportato le banche sotto il riflettore. Il sostanziale fallimento di Bankia e le incredibili perdite di JP Morgan (2 miliardi di dollari in 6 settimane) hanno mostrato al mondo che siamo ancora nella stessa situazione di quattro anni fa e che una crisi bancaria continua ad essere dietro l'angolo.
Le riforme che sono state fatte finora sono andate tutte nella direzione di diminuire la cosiddetta leva finanziaria, ovvero il rapporto tra le attività della banca ed il suo capitale. Con la deregulation finanziaria degli ultimi decenni questo rapporto è esploso, passando da 5/6 fino, in alcuni casi, a 30. Questo vuol dire che il denaro preso in prestito e reivenstito era fino a 30 volte superiore al capitale costitutivo della banca - di conseguenza aumentando a dismisura le possibilità di guadagno. Ma anche di perdita. Se con una leva di 2 oltre il 50% delle attività dovevano fallire prima di mettere la banca nei guai, con un leverage di 20, basta che il 5% delle attività falliscano per rendere la banca insolvente. A questo proposito l'accordo di Basilea (Basel III) richiederà alle banche di avere un capitale non inferiore al 6% delle attività (9% in Europa).
Non ci sono dubbi che questo sia stato un primo passo, ma assolutamente non sufficiente, come appare evidente in questi giorni. Il problema principale delle banche è che continuano ad essere too big to fail, come già erano prima della crisi. Anzi, la situazione è peggiorata se pensiamo che 3 anni e mezzo fa le principali 10 banche controllavano il 55% delle attività mentre ora ne controllano il 77%. Vale a dire che nella crisi le grandi banche si sono rafforzate, il capitale si è concentrato ulteriormente ed il collasso di una banca come JP Morgan porterebbe al crollo dell'intero sistema finanziario. Basta pensare che una banca ben più piccola coma Bankia è stata nazionalizzata perchè il suo fallimento avrebbe comunque portato un rischio sistemico per il mercato spagnolo.
La consapevolezza di essere troppo grandi per fallire spinge le banche a operazioni sempre più rischiose, in effetti stanno usando i nostri soldi per le loro operazioni perchè sanno che se falliscono verrano rimborsate dallo stato. A 5 anni dall'inizio della crisi, non ci sono ancora istituzioni che controllino le attività speculative e le tengano sotto controllo - la cosiddetta Volcker rule, ancora da approvare e tutta da verificare. Nè c'è traccia della tanto richiesta trasparenza, le perdite di JP Morgan sono continuate per oltre sei settimane senza che nessuno, e tantomeno il management della banca, intervenisse mentre la cosiddetta London Whale - il trader Bruno Iksil - accumulava asset giganteschi, teoricamente per riparare la propria banca dal rischio, in realtà trascinandola a fondo una volta che i suoi investimenti (meglio: le sue scommesse) si sono rivelati erronei.
Ovviamente i grandi istituti finanziari vedono queste riforme come uno spauracchio ed in questi anni hanno fatto pressioni di ogni tipo per impedirle, con evidente successo. Il CEO di JP Morgan Jamie Dimon era in testa agli oppositori, portando le buone performance della sua banca durante la crisi a testimonianza della non necessità delle riforme. Sembra quasi una sorta di giustizia divina ad aver colpito la hubris di questo banchiere.
Gli eventi di questi giorni riportano dunque di attualità - se ne è accorto anche Obama - una vera riforma bancaria. Che aumenti la trasparenza delle banche per garantire gli shareholder. Che regoli il rischio, dato che il mercato non è in grado di valutarlo correttamente. E che soprattutto permetta alle banche di fallire senza portarsi dietro il resto del sistema finanziario ed l'intera economia.
In realtà l'ultima settimana ha riportato le banche sotto il riflettore. Il sostanziale fallimento di Bankia e le incredibili perdite di JP Morgan (2 miliardi di dollari in 6 settimane) hanno mostrato al mondo che siamo ancora nella stessa situazione di quattro anni fa e che una crisi bancaria continua ad essere dietro l'angolo.
Le riforme che sono state fatte finora sono andate tutte nella direzione di diminuire la cosiddetta leva finanziaria, ovvero il rapporto tra le attività della banca ed il suo capitale. Con la deregulation finanziaria degli ultimi decenni questo rapporto è esploso, passando da 5/6 fino, in alcuni casi, a 30. Questo vuol dire che il denaro preso in prestito e reivenstito era fino a 30 volte superiore al capitale costitutivo della banca - di conseguenza aumentando a dismisura le possibilità di guadagno. Ma anche di perdita. Se con una leva di 2 oltre il 50% delle attività dovevano fallire prima di mettere la banca nei guai, con un leverage di 20, basta che il 5% delle attività falliscano per rendere la banca insolvente. A questo proposito l'accordo di Basilea (Basel III) richiederà alle banche di avere un capitale non inferiore al 6% delle attività (9% in Europa).
Non ci sono dubbi che questo sia stato un primo passo, ma assolutamente non sufficiente, come appare evidente in questi giorni. Il problema principale delle banche è che continuano ad essere too big to fail, come già erano prima della crisi. Anzi, la situazione è peggiorata se pensiamo che 3 anni e mezzo fa le principali 10 banche controllavano il 55% delle attività mentre ora ne controllano il 77%. Vale a dire che nella crisi le grandi banche si sono rafforzate, il capitale si è concentrato ulteriormente ed il collasso di una banca come JP Morgan porterebbe al crollo dell'intero sistema finanziario. Basta pensare che una banca ben più piccola coma Bankia è stata nazionalizzata perchè il suo fallimento avrebbe comunque portato un rischio sistemico per il mercato spagnolo.
La consapevolezza di essere troppo grandi per fallire spinge le banche a operazioni sempre più rischiose, in effetti stanno usando i nostri soldi per le loro operazioni perchè sanno che se falliscono verrano rimborsate dallo stato. A 5 anni dall'inizio della crisi, non ci sono ancora istituzioni che controllino le attività speculative e le tengano sotto controllo - la cosiddetta Volcker rule, ancora da approvare e tutta da verificare. Nè c'è traccia della tanto richiesta trasparenza, le perdite di JP Morgan sono continuate per oltre sei settimane senza che nessuno, e tantomeno il management della banca, intervenisse mentre la cosiddetta London Whale - il trader Bruno Iksil - accumulava asset giganteschi, teoricamente per riparare la propria banca dal rischio, in realtà trascinandola a fondo una volta che i suoi investimenti (meglio: le sue scommesse) si sono rivelati erronei.
Ovviamente i grandi istituti finanziari vedono queste riforme come uno spauracchio ed in questi anni hanno fatto pressioni di ogni tipo per impedirle, con evidente successo. Il CEO di JP Morgan Jamie Dimon era in testa agli oppositori, portando le buone performance della sua banca durante la crisi a testimonianza della non necessità delle riforme. Sembra quasi una sorta di giustizia divina ad aver colpito la hubris di questo banchiere.
Gli eventi di questi giorni riportano dunque di attualità - se ne è accorto anche Obama - una vera riforma bancaria. Che aumenti la trasparenza delle banche per garantire gli shareholder. Che regoli il rischio, dato che il mercato non è in grado di valutarlo correttamente. E che soprattutto permetta alle banche di fallire senza portarsi dietro il resto del sistema finanziario ed l'intera economia.
Friday, 11 May 2012
Spagna a fondo per salvare le banche
Quello che sta succedendo in Spagna rischia di essere il passo finale di una Europa ormai tanto avvitata in sè stessa da aver perso il senso della realtà. La Merkel ha nuovamente ribadito il suo netto rifiuto agli Eurobond e continua a sostenere che gli stati debbano pagare i propri debiti, costi quel che costi.
Si è già visto cosa questo ha comportato in Grecia. In Spagna, se possibile, la cosa è pure peggiore. Se ad Atene si poteva sostenere che i greci avessero sperperato risorse e vissuto sopra le proprie possibilità, non si può certamente dire la stessa cosa per Madrid, che prima della crisi aveva debito e deficit migliori di quelli tedeschi. E chiedere più austerity ad un paese con quasi il 25% di disoccupazione sembra la ricetta perfetta per il disastro.
Quel che è ancora più allucinante è che tutti i problemi nascono dal settore privato e, in particolar modo da quello bancario che rimane estremamente debole. Banche che, vale la pena ricordarlo, sono tra le più tutelate del mondo - avendo il diritto in caso di ritardo nei pagamenti del mutuo non solo di riprendersi la casa, ma anche di costringere l'ex propietario appena dispossessato a continuare a pagare la differenza non coperta dalla vendita della casa stessa; o capaci di chiedere una commissione di 7 (sette) euro (!) per il prelievo al bancomat se effettuato in un istituto di credito diverso da quello dove si detengono i propri risparmi.
Bene, nonostante una legislazione ed una regolamentazione così clamorosamente compiancenti, le banche spagnole entro la fine dell'anno avranno bisogno di una iniezione di capitale tra 100 e 250 milardi di euro solo per rispettare i paramentri del core tier I capital ratio richiesto dalle nuove regole europee - l'alternativa, comunque irrealistica, sarebbe rientrare di una tale quantità di attività da schiantare definitivamente l'economia spagnola.
Data l'elevata interdipendenza del sistema bancario europeo, sembra soltato logico avere un piano di salvataggio a livello comunitario, che per altro renderebbe le banche spagnole europee a tutti gli effetti. Nulla da fare naturalmente. Ed allora dovrà essere il governo a trovare il capitale necessario a rifinanziare le banche. Detto in breve, l'austerity, i tagli serviranno finanziare le banche. Ed allo stesso tempo lo stato spagnolo si indebiterà sui mercati per dare i soldi al sistema finanziario, magari chiedendo in cambio di acquistare i nuovi titoli del debito pubblico che metterebbe di nuovo a rischio le banche stesse, esposte su titoli dal rating sempre peggiore.
Insomma, la situazione è catastrofica: se le banche spagnole non verranno salvate, queste affonderanno lo stato. Ma se lo stato le salva, lo farà aumentando il debito, scatenando il panico sui mercati ed imponendo ancora più austerity su un paese ormai in ginocchio.
Una situazione da incubo cui nessuno tenta ormai di opporsi, sperando solo in non si sa quale miracolo. E le cui conseguenze, dato il peso dell'economia spagnola, sono facilmente immaginabili. Sull'Europa, e poi sull'intera economia mondiale.
Si è già visto cosa questo ha comportato in Grecia. In Spagna, se possibile, la cosa è pure peggiore. Se ad Atene si poteva sostenere che i greci avessero sperperato risorse e vissuto sopra le proprie possibilità, non si può certamente dire la stessa cosa per Madrid, che prima della crisi aveva debito e deficit migliori di quelli tedeschi. E chiedere più austerity ad un paese con quasi il 25% di disoccupazione sembra la ricetta perfetta per il disastro.
Quel che è ancora più allucinante è che tutti i problemi nascono dal settore privato e, in particolar modo da quello bancario che rimane estremamente debole. Banche che, vale la pena ricordarlo, sono tra le più tutelate del mondo - avendo il diritto in caso di ritardo nei pagamenti del mutuo non solo di riprendersi la casa, ma anche di costringere l'ex propietario appena dispossessato a continuare a pagare la differenza non coperta dalla vendita della casa stessa; o capaci di chiedere una commissione di 7 (sette) euro (!) per il prelievo al bancomat se effettuato in un istituto di credito diverso da quello dove si detengono i propri risparmi.
Bene, nonostante una legislazione ed una regolamentazione così clamorosamente compiancenti, le banche spagnole entro la fine dell'anno avranno bisogno di una iniezione di capitale tra 100 e 250 milardi di euro solo per rispettare i paramentri del core tier I capital ratio richiesto dalle nuove regole europee - l'alternativa, comunque irrealistica, sarebbe rientrare di una tale quantità di attività da schiantare definitivamente l'economia spagnola.
Data l'elevata interdipendenza del sistema bancario europeo, sembra soltato logico avere un piano di salvataggio a livello comunitario, che per altro renderebbe le banche spagnole europee a tutti gli effetti. Nulla da fare naturalmente. Ed allora dovrà essere il governo a trovare il capitale necessario a rifinanziare le banche. Detto in breve, l'austerity, i tagli serviranno finanziare le banche. Ed allo stesso tempo lo stato spagnolo si indebiterà sui mercati per dare i soldi al sistema finanziario, magari chiedendo in cambio di acquistare i nuovi titoli del debito pubblico che metterebbe di nuovo a rischio le banche stesse, esposte su titoli dal rating sempre peggiore.
Insomma, la situazione è catastrofica: se le banche spagnole non verranno salvate, queste affonderanno lo stato. Ma se lo stato le salva, lo farà aumentando il debito, scatenando il panico sui mercati ed imponendo ancora più austerity su un paese ormai in ginocchio.
Una situazione da incubo cui nessuno tenta ormai di opporsi, sperando solo in non si sa quale miracolo. E le cui conseguenze, dato il peso dell'economia spagnola, sono facilmente immaginabili. Sull'Europa, e poi sull'intera economia mondiale.
Thursday, 10 May 2012
Il mito del Monti liberale
Nei mesi scorsi abbiamo tutti potuto vedere come il governo Monti risponda ad una agenda molto precisa che ha poco a che fare con le riforme "liberali". Innalzamento dell'età pensionabile in 3 giorni, ma le liberalizzazioni sono state un disastro. Non parliamo poi dei cosiddetti poteri forti, a cominciare dalle banche, difese in ogni maniera dal governo, inclusa l'istituzione di un fondo di garanzia.
A chi parlava di un governo ostaggio dei potentati economici, si è però sempre opposta la storia personale di Mario Monti, già commissario europeo alla concorrenza (1999-2004) che ebbe il coraggio di sanzionare Microsoft.
Peccato che sia successo pure qualcos'altro durante il mandato di Monti, qualcosa che non fa troppo comodo ricordare. A cavallo del secolo infatti iniziò la più grande concentrazione bancaria dei tempi recenti. Nel silenzio di Monti. Non solo: il grado di interconnessione tra i diversi istituti bancari divenne così elevato che, come si è poi visto, il fallimento di un singolo ente avrebbe portato ad una crisi di sistema.
Il liberale Monti forse non aveva ben presente il vero significato di concorrenza, basata su libera entrate e libera uscita degli agenti economici. E se la libera entrata era garantita, non così la libera uscita, tant'è che come sappiamo si dovette ricorrere ad un bail out generale per salvare le banche, appena 3 anni dopo la fine del mandato di Monti. Insomma, mentre Monti si occupava a tempo pieno di liberalizzare i mercati, si creavano banche too big to fail. Un successo non c'è che dire.
Una possiible spiegazione è che Monti non sapesse fare molto bene il suo mestiere e non conoscesse bene il significato di libero mercato. E questa ipotesi, vedendo come sta gestendo l'economia italiana, non può essere scartata a prescindere. L'alternativa è che per i liberali alla Monti, liberalizzare vuol dire fare gli interessi dei padroni del mercato, altro che competizione.
Ecco, data questa sfilza di insuccessi, prima di pontificare su chi ha generato la crisi, Monti potrebbe guardarsi allo specchio.
A chi parlava di un governo ostaggio dei potentati economici, si è però sempre opposta la storia personale di Mario Monti, già commissario europeo alla concorrenza (1999-2004) che ebbe il coraggio di sanzionare Microsoft.
Peccato che sia successo pure qualcos'altro durante il mandato di Monti, qualcosa che non fa troppo comodo ricordare. A cavallo del secolo infatti iniziò la più grande concentrazione bancaria dei tempi recenti. Nel silenzio di Monti. Non solo: il grado di interconnessione tra i diversi istituti bancari divenne così elevato che, come si è poi visto, il fallimento di un singolo ente avrebbe portato ad una crisi di sistema.
Il liberale Monti forse non aveva ben presente il vero significato di concorrenza, basata su libera entrate e libera uscita degli agenti economici. E se la libera entrata era garantita, non così la libera uscita, tant'è che come sappiamo si dovette ricorrere ad un bail out generale per salvare le banche, appena 3 anni dopo la fine del mandato di Monti. Insomma, mentre Monti si occupava a tempo pieno di liberalizzare i mercati, si creavano banche too big to fail. Un successo non c'è che dire.
Una possiible spiegazione è che Monti non sapesse fare molto bene il suo mestiere e non conoscesse bene il significato di libero mercato. E questa ipotesi, vedendo come sta gestendo l'economia italiana, non può essere scartata a prescindere. L'alternativa è che per i liberali alla Monti, liberalizzare vuol dire fare gli interessi dei padroni del mercato, altro che competizione.
Ecco, data questa sfilza di insuccessi, prima di pontificare su chi ha generato la crisi, Monti potrebbe guardarsi allo specchio.
Friday, 4 May 2012
Revisionismo storico-finanziario
La memoria di economisti e banchieri non pare essere molto lunga. Come ben sappiamo, dopo appena qualche mese dalla crisi le grandi banche d'affari ricominciarono a pagare bonus giganteschi ai propri dirigenti immaginandoli incolpevoli, e dopo un paio di anni gli economisti e i politici hanno ricominciato a richiedere più mercato e meno lo stato per risolvere una crisi iniziata proprio dal mercato.
Ma Mervin King, il governatore della Banca d'Inghilterra ha raggiunto una nuova vetta di revisionismo. Pochi giorni fa, parlando della crisi, è riuscito nell'impresa di dire che "avremmo dovuto gridare dai tetti" per avvertire del pericolo che stavamo correndo.
Una bizzarra assunzione di responsabilità che equivale a dire che lui e i suoi associati avevano capito tutto ma che non avevano alcun potere per prevenire la crisi, se non quello di denunciarla pubblicamente. Tutta colpa del governo dunque.
Il problema è che, a meno che non si tratti di un clamoroso caso di omonimia, Mervin King è lo stesso che nel 2007, a pochi mesi prima dell'inizio della crisi, ebbe a dire che la stabilità economica era ormai raggiunta, e non certo grazie alla fortuna. Non solo. Nello stesso anno, ad Agosto, elogiò la forza del sistema bancario, "molto più solido che in passato, proprio perchè i rischi non sono più presenti nei bilanci delle banche e sono stati presi da persone che vogliono assumersi questi rischi e sono meglio capaci di gestirli".
Bravo! Nel 2007 le banche erano efficienti e la Bank of England aveva la situazione sotto controllo, certo non per caso ma grazie agli sforzi dello stesso Mervin. 5 anni dopo, invece, abbiamo finalmente capito che il "Re" dei banchieri aveva capito tutto in anticipo e che purtroppo non ha avuto la possibilità di fermare il collasso.
Ecco, forse in questo caso, invece dell'etica protestante di Weberiana memoria, ci vorrebbe un pò più di senso dell'onore di sapore giapponese. Tipo l'harakiri.
Ma Mervin King, il governatore della Banca d'Inghilterra ha raggiunto una nuova vetta di revisionismo. Pochi giorni fa, parlando della crisi, è riuscito nell'impresa di dire che "avremmo dovuto gridare dai tetti" per avvertire del pericolo che stavamo correndo.
Una bizzarra assunzione di responsabilità che equivale a dire che lui e i suoi associati avevano capito tutto ma che non avevano alcun potere per prevenire la crisi, se non quello di denunciarla pubblicamente. Tutta colpa del governo dunque.
Il problema è che, a meno che non si tratti di un clamoroso caso di omonimia, Mervin King è lo stesso che nel 2007, a pochi mesi prima dell'inizio della crisi, ebbe a dire che la stabilità economica era ormai raggiunta, e non certo grazie alla fortuna. Non solo. Nello stesso anno, ad Agosto, elogiò la forza del sistema bancario, "molto più solido che in passato, proprio perchè i rischi non sono più presenti nei bilanci delle banche e sono stati presi da persone che vogliono assumersi questi rischi e sono meglio capaci di gestirli".
Bravo! Nel 2007 le banche erano efficienti e la Bank of England aveva la situazione sotto controllo, certo non per caso ma grazie agli sforzi dello stesso Mervin. 5 anni dopo, invece, abbiamo finalmente capito che il "Re" dei banchieri aveva capito tutto in anticipo e che purtroppo non ha avuto la possibilità di fermare il collasso.
Ecco, forse in questo caso, invece dell'etica protestante di Weberiana memoria, ci vorrebbe un pò più di senso dell'onore di sapore giapponese. Tipo l'harakiri.
Wednesday, 2 May 2012
La chiamavano una volta lotta di classe
Mishel, in un paper su produttività e compensazione oraria in America, ha dei dati che illustrano bene cosa sia successo alla più grande economia capitalista
Sono anni che ci sentiamo ripetere che gli aumenti salariali devono essere legati alla produttività e la liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe portare proprio a questo, maggiore produttività e paghe più alte. Peccato che l'evidenza del mercato del lavoro più liberale del mondo dica qualcosa di molto diverso.
Come si vede molto bene, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1973 la produttività e l'aumento della paga oraria sono andate a braccietto. In parole povere, se si produceva di più, aumentavano i salari. Cioè quello che i mercatisti chiedono. Peccato avvenisse quando la forza lavoro americana era più sindacalizzata ed il mercato meno liberale.
Con la fine di Bretton Woods, la liberalizzione del mercato dei capitali e soprattutto la deregulation reaganiana le cose sono cambiate drasticamente. Una volta che il mercato è stato lasciato a se stesso, la legge del più forte ha prevalso ed il divario tra produttività e paga è aumentanto esponenzialmente, con le buste paga sostanzialmente stagnanti (ed il dato include anche i salari dei vari CEO e finanzieri, che sono aumentate a dismisura, quindi possiamo immaginare cosa sia successo agli altri).
E dove è andata il resto della produttività? Semplicemente a remunerare il capitale che si è impossessato di tutti o quasi i guadagni, aumentando la diseguaglianza e schiacciando il monte salari. La chiamavano una volta lotta di classe.
Detto molto semplicemente, i lavoratori americani avrebbero potuto avere una remunerazione più alta ed uno stile di vita migliore, senza ricorrere a quell'indebitamento che ha poi provocato la crisi dei subprime. Invece i salari sono rimasti stagnanti anche mentre l'economia cresceva.
E' questo quello che ci chiedono di fare adesso anche in Italia?
Sono anni che ci sentiamo ripetere che gli aumenti salariali devono essere legati alla produttività e la liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe portare proprio a questo, maggiore produttività e paghe più alte. Peccato che l'evidenza del mercato del lavoro più liberale del mondo dica qualcosa di molto diverso.
Come si vede molto bene, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1973 la produttività e l'aumento della paga oraria sono andate a braccietto. In parole povere, se si produceva di più, aumentavano i salari. Cioè quello che i mercatisti chiedono. Peccato avvenisse quando la forza lavoro americana era più sindacalizzata ed il mercato meno liberale.
Con la fine di Bretton Woods, la liberalizzione del mercato dei capitali e soprattutto la deregulation reaganiana le cose sono cambiate drasticamente. Una volta che il mercato è stato lasciato a se stesso, la legge del più forte ha prevalso ed il divario tra produttività e paga è aumentanto esponenzialmente, con le buste paga sostanzialmente stagnanti (ed il dato include anche i salari dei vari CEO e finanzieri, che sono aumentate a dismisura, quindi possiamo immaginare cosa sia successo agli altri).
E dove è andata il resto della produttività? Semplicemente a remunerare il capitale che si è impossessato di tutti o quasi i guadagni, aumentando la diseguaglianza e schiacciando il monte salari. La chiamavano una volta lotta di classe.
Detto molto semplicemente, i lavoratori americani avrebbero potuto avere una remunerazione più alta ed uno stile di vita migliore, senza ricorrere a quell'indebitamento che ha poi provocato la crisi dei subprime. Invece i salari sono rimasti stagnanti anche mentre l'economia cresceva.
E' questo quello che ci chiedono di fare adesso anche in Italia?
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