Tuesday 15 May 2012

Le banche nell'occhio del ciclone, di nuovo

Tutti ricordano che la grande crisi del 2007-08 iniziò dal fallimento di diversi istituti finanziari, da Northern Rock a Bear Strearns fino a Lehman Brothers e che questa immediatamente si propagò al resto del settore finanziario e poi all'economia reale. In quegli anni era condivisa l'idea che una riforma di tutto il sistema fosse una necessità impellente per evitare il ripetersi di un'altra crisi di tale portata. Ma col passare del tempo nulla o quasi è stato fatto e sembra che ci siamo dimenticati presto delle lezioni della crisi, tutti concentrati ad addebitare i problemi dell'economia mondiale agli stati, come se fossero stati loro la causa della cataclisma finanziario.
In realtà l'ultima settimana ha riportato le banche sotto il riflettore. Il sostanziale fallimento di Bankia e le incredibili perdite di JP Morgan (2 miliardi di dollari in 6 settimane) hanno mostrato al mondo che siamo ancora nella stessa situazione di quattro anni fa e che una crisi bancaria continua ad essere dietro l'angolo.
Le riforme che sono state fatte finora sono andate tutte nella direzione di diminuire la cosiddetta leva finanziaria, ovvero il rapporto tra le attività della banca ed il suo capitale. Con la deregulation finanziaria degli ultimi decenni questo rapporto è esploso, passando da 5/6 fino, in alcuni casi, a 30. Questo vuol dire che il denaro preso in prestito e reivenstito era fino a 30 volte superiore al capitale costitutivo della banca - di conseguenza aumentando a dismisura le possibilità di guadagno. Ma anche di perdita. Se con una leva di 2 oltre il 50% delle attività dovevano fallire prima di mettere la banca nei guai, con un leverage di 20, basta che il 5% delle attività falliscano per rendere la banca insolvente. A questo proposito l'accordo di Basilea (Basel III) richiederà alle banche di avere un capitale non inferiore al 6% delle attività (9% in Europa).
Non ci sono dubbi che questo sia stato un primo passo, ma assolutamente non sufficiente, come appare evidente in questi giorni. Il problema principale delle banche è che continuano ad essere too big to fail, come già erano prima della crisi. Anzi, la situazione è peggiorata se pensiamo che 3 anni e mezzo fa le principali 10 banche controllavano il 55% delle attività mentre ora ne controllano il 77%. Vale a dire che nella crisi le grandi banche si sono rafforzate, il capitale si è concentrato ulteriormente ed il collasso di una banca come JP Morgan porterebbe al crollo dell'intero sistema finanziario. Basta pensare che una banca ben più piccola coma Bankia è stata nazionalizzata perchè il suo fallimento avrebbe comunque portato un rischio sistemico per il mercato spagnolo.
La consapevolezza di essere troppo grandi per fallire spinge le banche a operazioni sempre più rischiose, in effetti stanno usando i nostri soldi per le loro operazioni perchè sanno che se falliscono verrano rimborsate dallo stato. A 5 anni dall'inizio della crisi, non ci sono ancora istituzioni che controllino le attività speculative e le tengano sotto controllo - la cosiddetta Volcker rule, ancora da approvare e tutta da verificare. Nè c'è traccia della tanto richiesta trasparenza, le perdite di JP Morgan sono continuate per oltre sei settimane senza che nessuno, e tantomeno il management della banca, intervenisse mentre la cosiddetta London Whale - il trader Bruno Iksil - accumulava asset giganteschi, teoricamente per riparare la propria banca dal rischio, in realtà trascinandola a fondo una volta che i suoi investimenti (meglio: le sue scommesse) si sono rivelati erronei. 
Ovviamente i grandi istituti finanziari vedono queste riforme come uno spauracchio ed in questi anni hanno fatto pressioni di ogni tipo per impedirle, con evidente successo. Il CEO di JP Morgan Jamie Dimon era in testa agli oppositori, portando le buone performance della sua banca durante la crisi a testimonianza della non necessità delle riforme. Sembra quasi una sorta di giustizia divina ad aver colpito la hubris di questo banchiere.
Gli eventi di questi giorni riportano dunque di attualità - se ne è accorto anche Obama - una vera riforma bancaria. Che aumenti la trasparenza delle banche per garantire gli shareholder. Che regoli il rischio, dato che il mercato non è in grado di valutarlo correttamente. E che soprattutto permetta alle banche di fallire senza portarsi dietro il resto del sistema finanziario ed l'intera economia.

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