Sembra ovvio a dirsi, ma è la produttività. Anche oggi riprendo un ottimo grafico di Krugman:
fonte: http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/11/26/whats-the-matter-with-italy/
Un problema che ci portiamo avanti dall'inizio della seconda Repubblica. I motivi possono essere tanti, a cominciare dalla taglia extra-small delle imprese italiane. I fatti, comunque, dicono che la globalizzazione, la creazione del mercato unico europeo e la mercatizzazione dell'economia hanno affossato la nostra industria. Le colpe andrebbero equamente distribuite tra capitalisti che sono in realtà rentiers, che non hanno investito in ricerca e sviluppo, che hanno trasformato la flessibilità in precarietà; sindacati, che hanno preferito un modello tutto italico di concertazione neo-corporativista, che in nome dell'unità sociale ha fondamentalmente sottoscritto una repressione salariale anche a fronte di profitti enormi delle industrie (che di conseguenza non hanno mai trovato stimoli adeguati per l'investimento); e naturalmente della politica, incapace di garantire una corretta politica industriale proprio nel momento di cambiamenti sistemici portati dall'apertura delle frontiere e dall'accrescersi della concorrenza capitalista - una politica che dunque teneva tasse alte senza fornire servizi e welfare adeguati alla nuova situazione economica.
Eppure, davanti all'evidenza dei numeri, ancora oggi nessuno è in grado di prendersi le proprie responsabilità - ed è dunque difficile pensare che ci possa essere una via d'uscita dietro l'angolo. Il caso dell'accordo sulla produttività è lampante in tal senso. Non solo mina la contrattazione nazionale ma agisce comunque solo sui costi, riducendo il cuneo fiscale. Che in generale è una buona idea per le imprese in crisi, ma non fa nulla per modificare l'andamento della produttività del lavoro. Per fermare il declino bisogna partire anche e soprattutto da lì.
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