Thursday, 29 March 2012

Recessione in Italia, crisi in Spagna....e poi?

Che succede? Non ci avevano forse detto che la cura Monti stava avendo effetto? Che l'economia reale ci avrebbe messo ancora un pò a riprendersi ma eravamo sulla strada giusta, mentre lo spread sarebbe continuato inesorabilmente a calare?  E lo stesso pareva vero per la Spagna.
In effetti, per qualche mese lo spread era calato, anche se i motivi andavano cercati a Francoforte, piuttosto che a Roma o Madrid. Le banche, copiosamente innaffiate dalla BCE, si erano infatti rimesse a comprare titoli pubblici, come confermato dai dati di Febbraio: credito al settore privato sostanzialmente immobile (+0.7%, solo +0.4% all'industria), crescita rapida (+6%) negli acquisti di titoli di stato ad alto rendimento (compresi quelli greci e portoghesi, i cui acquisti sono aumentati a dismisura). Ma non poteva durare, ed ecco che nel giro di una decina di giorni lo spread è tornato a livelli più che preoccupanti.
Forse davvero qualcuno si illiudeva che si potessero mettere a posto i conti e stabilizzare l'economia con una finanziaria da 30 miliardi quando il debito italiano è 60 volte maggiore?
In realtà i fondamentali macroeconomici di Spagna e Italia stanno peggiorando. Pagano meno interessi sul debito, ottima notizia, ma la disoccupazione aumenterà durante l'anno, diverse compagnie falliranno e le entrate fiscali diminuiranno.
In Italia si sono riviste al ribasso le stime del PIL, -1.6% quest'anno. In Spagna, Rajoy aveva promesso che avrebbe diminuito il debito, ma tagli e tasse maggiori già pianificati non permetteranno di ridurre il deficit al 5.3% del PIL. I primi calcoli del governo spagnolo richiedevano risparmi per 32 miliardi di euro, in realtà, riviste le stime in base alla recessione (-2%) che la stessa manovra accellera, ce ne vorrebbero quasi il doppio. Impossibile. E così il deficit rimarrà ancora molto alto, costringendo il governo ad indebitarsi ulteriormente sui mercati.
Non c'è da sorprendersi e sarebbe bastato guardare oltre Manica per capire che l'austerity non funziona. Dopo due anni di cura Osborne, a forza di tagli e aumenti di imposte regressive, la Gran Bretagna è tornata in recessione (-0.4%). E di sicuro in questo caso non si possono imputare i problemi ad un mercato del lavoro troppo ingessato, tutt'altro. Più semplicemente, non esistono basi serie per confermare la teoria secondo cui liberando le forze del settore privato si rimetta in moto la crescita economica. Infatti, l'esatto contrario sta avvenendo, il mercato asseconda la crisi e licenziare o abbassare i salari potrà solo peggiorare le cose.
In parte i liberali hanno ragione, lo stato è parte del problema e non della soluzione. Almeno finchè a controllare la spesa pubblica saranno governanti ideologizzati che ignorano una lezione basilare di macro-economia: non si può tagliare quando si è in recessione.
Era dunque inevitabile che qualcuno, ad un certo punto, suonasse l'allarme e che il panico tornasse a diffondersi tra i mercati finanziari.
Ora il buon Monti si è messo perfino ad attaccare il sodale Rajoy, apparentemente non abbastanza deciso a tagliare spese e salari....mentre invece sono prorprio queste politiche che stanno riportando la Spagna verso il baratro. E la buriana sta tornando in Italia, magari giusto in tempo per costringere il PD a votare la legge Fornero.

Wednesday, 28 March 2012

La fine della concertazione....era ora!

La contro-riforma Fornero sul lavoro ha un obiettivo chiaro, e non è certo la riforma dell'art.18, che ha effetti pratici piuttosto limitati. Di sicuro non aiuterà l'occupazione, questo lo può capire chiunque e lo sanno benissimo sia Fornero che Monti.

Molto più importante, per il governo dei tecnici, far passare 2 questioni di principio, che sono nel DNA della destra liberista. Uno è il modello Marchionne, in fabbrica comanda il padrone ed il lavoro è una semplice merce. Che esista un mercato del lavoro, e che quindi il lavoro stesso sia una merce è, ovviamente, una lapalissiana verità. Il problema sono, come sempre, le leggi e le istituzioni che regolano un mercato, ed in questo caso si tolgono protezioni al lavoro e si dà mano libera al capitale.
La seconda questione è legata a doppio filo alla prima, ed è il ruolo dei sindacati. Il modello Thatcher, per così dire. Niente birra e panini, niente tavoli con lunghe discussioni, il governo decide punto e basta. Il sindacato è considerato una corporazione e quindi, quasi automaticamente, un freno alle esigenze del paese. Si cerca dunque di rafforzare i poteri dello stato diminuendo quello delle controparti. Legittimo, anche se suona strano che a farlo sia un governo senza mandato popolare e quindi assai meno rappresentativo di un qualsiasi sindacato, figuriamoci poi della CGIL.

Si tratta, con tutta evidenza, di una manovra concentrica. Sfidare il sindacato mentre lo si indebolisce di fatto nei luoghi di lavoro. Con le nuove regole si cerca di schiacciare la rappresentanza sindacale, se possibile espellendola dalla fabbrica, come a Mirafiori, come a Pomigliano. Quando ci sarà da licenziare, perchè, infatti, non iniziare dai lavoratori sindacalizzati, quelli che scioperano e abbassano la produttività? E un sindacato debole di certo rappresenta un problema minore per un governo che, decidendo senza concertazione, si troverebbe di nuovo ad affrontare il conflitto sociale.

Non tutto il male viene per nuocere, però. Quali sono stati i risultati della concertazione? Per trent'anni ormai il sindacato si è fatto carico dei problemi del paese, dalla moderazione salariale alla politica dei redditi. Si è fatta calare l'inflazione, si è scongiurata la crisi del 92, si è fatto entrare l'Italia nell'Euro. Tutto sulla pelle dei lavoratori, mentre i profitti crescevano e il capitale si impossessava sempre più della ricchezza del paese. Dietro la richiesta di responsabilità e la concertazione, si è in realtà nascosto una gigantesca ridistribuzione del reddito.
Il sindacato, o meglio la CGIL, deve uscire da questa logica. L'art.18, lo statuto dei lavoratori, i miglioramenti salariali son venuti tutti col sindacato che lottava, mentre da quando ci si è cominciati a sedere nei ministeri è cominciata una penosa ritirata. Ora la CGIL è buttata fuori dal tavolo, espulsa dalle fabbriche, i nodi son venuti al pettine, il capitale vuole mano completamente libera. E' ora di uscire dal palazzo e tornare in piazza. Non solo per difendere le conquiste del passato, ma per ricominciare, finalmente, a cambiare in meglio un mondo che sta andando in rovina.

Friday, 23 March 2012

E a Londra si tagliano le tasse....per i ricchi

Il governo di coalizione continua la sua guerra ideologica. Le tre finanziarie firmate per ora da George Osborne dimostrano solamente incompetenza e furore ideologico, un mix letale per l'economia brittanica.  Fin da subito dopo le elezioni si è smantellato passo dopo passo il settore pubblico con tagli indiscriminati, scommettendo che i licenziamenti tra gli statali sarebbero stati controbilanciati da assunzioni nel settore privato.
Naturalmente non è successo.
Intanto si è cercato di aggredire con forza deficit e debito, con aumenti di tasse soprattutto per le fascie più deboli - basta ricordarsi che le tasse universitarie son state triplicate l'anno scorso - e tagli per i servizi sociali, i benefit per le famiglie più povere (18 miliardi all'anno) e addirittura i cosiddetti child benefits.
Quest'anno c'è stata l'ennesima escalation. Un taglio sostanziale per la corporate tax, la tassa sulle imprese, accompagnata da una scandalosa riduzione delle tasse per i più ricchi, la famosa 50p tax (50 pence di tasse su ogni pound guadagnato) che diventerà ora 45p tax. Il risultato. Per i ricconi che guadagnano oltre 1 milione di sterline l'anno, un risparmio di oltre 40 mila sterline (nette) all'anno, il doppio dello stipendio di un normale lavoratore.
Un'idiozia. Se meno tasse per l'industria può essere utile per incentivare gli investimenti, la diminuzione delle tasse sul reddito è un regalo bello e buono per chi non ne ha bisogno.Viene giustificato come stimolo fiscale per rilanciare l'economia, ma sarebbe stato più giusto e soprattutto più utile aumentare il potere di consumo delle fascie più povere e non di chi ha già troppo per aumentare i propri consumi. Mentre intanto si taglia il fondo pensione per i pensionandi.
Più che di neo-liberal economics si tratta di voodoo economics.

Wednesday, 21 March 2012

Governo, lavoro e i numeri che non mentono

Il governo dei poteri forti sta definitivamente svelando il suo vero volto. Non contento di aver colpito i lavoratori rinviando la loro pensione e obbligandoli a lavorare di più, oggi ne attacca i diritti fondamentali, abrogando di fatto l'art.18.
Era prevedibile, era addirittura scontato. Qualsiasi persona di buon senso sa benissimo che in Italia la flessibilità del mercato del lavoro è già molto alta, anzi altissima per quanto riguarda il lavoro in entrata.
D'altronde è l'OECD a certificarlo


Employment protection in OECD and selected non-OECD countries, 2008*
Scale from 0 (least restrictions) to 6 (most restrictions)
 

Protection of permanent workers against (individual) dismissal Regulation on temporary forms of employment Specific requirements for collective dismissal OECD employment protection index
United States 0.56 0.33 2.88 0.85
Canada 1.17 0.22 2.63 1.02
United Kingdom 1.17 0.29 2.88 1.09
New Zealand 1.54 1.08 0.38 1.16
South Africa 1.91 0.58 1.88 1.35
Australia 1.37 0.79 2.88 1.38
Ireland 1.67 0.71 2.38 1.39
Japan 2.05 1.50 1.50 1.73
Switzerland 1.19 1.50 3.88 1.77
Russian Federation 2.79 0.79 1.88 1.80
Israel 2.19 1.58 1.88 1.88
Denmark 1.53 1.79 3.13 1.91
Chile 2.59 2.04 0.00 1.93
Sweden 2.72 0.71 3.75 2.06
Hungary 1.82 2.08 2.88 2.11
Iceland 2.12 1.54 3.50 2.11
Korea 2.29 2.08 1.88 2.13
Slovak Republic 2.45 1.17 3.75 2.13
Netherlands 2.73 1.42 3.00 2.23
Brazil 1.49 3.96 0.00 2.27
Finland 2.38 2.17 2.38 2.29
Czech Republic 3.00 1.71 2.13 2.32
Estonia 2.27 2.17 3.25 2.39
Poland 2.01 2.33 3.63 2.41
Austria 2.19 2.29 3.25 2.41
Italy 1.69 2.54 4.88 2.58
Belgium 1.94 2.67 4.13 2.61
Germany 2.85 1.96 3.75 2.63
India 3.65 2.67 0.00 2.63
Norway 2.20 3.00 2.88 2.65
Slovenia 2.98 2.50 2.88 2.76
China 3.31 2.21 3.00 2.80
Portugal 3.51 2.54 1.88 2.84
Greece 2.28 3.54 3.25 2.97
France 2.60 3.75 2.13 3.00
Indonesia 4.29 2.96 0.00 3.02
Spain 2.38 3.83 3.13 3.11
Mexico 2.25 4.00 3.75 3.23
Luxembourg 2.68 3.92 3.88 3.39
Turkey 2.48 4.88 2.38 3.46
 source: http://www.oecd.org/document/11/0,3746,en_2649_37457_42695243_1_1_1_37457,00.html

La tabella smentisce categoricamente la fandonia del governo che il problema dell'Italia sia l'eccessiva regolamentazione del mercato del lavoro. Dunque gli investimenti esteri non verrebbero in Italia per la troppa rigidità? Eppure Francia e Germania hanno ben più protezione per il lavoro che nel nostro paese. Non solo! Pure in India e Turchia c'è più attenzione alla protezione del lavoro.
E non basta! Le modifiche all'art.18 riguardano solamente la prima colonna della tabella di sopra, quella sulle protezioni contro il licenziamento individuale. Beh, l'Italia in quanto a protezioni individuali è quasi in fondo alla tabella, facendo peggio, tra gli altri, di Ungheria, Slovacchia, Sud Africa e Messico, e persino l'ultra-liberista Irlanda!
E dunque perchè si decide di intervenire? Ancora una volta ci raccontano un sacco di frottole, il sistema pensionistico era già tra i più restrittivi in Europa, il mercato del lavoro è già scandalosamente flessibile.
L'azione del governo non è per rimettere a posto i conti, è una azione politica, dirò di più, ideologica, che porta avanti un ben preciso disegno della società, volto a smantellare diritti (e non privilegi). L'art.18 è solo un simbolo, ma un simbolo decisivo, perchè porta un attacco nel cuore della democrazia basata sull'accordo capitale-lavoro. Invece, si torna, brutalmente, a bastonare il lavoro, per uscire dalla crisi con un nuovo patto sociale, caratterizzato da un percorso violentemente reazionario, tutto a favore del capitale. Un balzo indietro di diversi decenni, una lotta di classe senza senza quartiere.
E' lo spartiacque della politica sul futuro. Con il lavoro, o con il capitale. Tertium non datur.

Tuesday, 20 March 2012

La favola dello spread

Il ritornello, in tv e sui giornali è ormai sempre più martellante, il governo Monti ha salvato l'Italia, la manovra finanziaria ha fatto abbassare lo spread e messo in sicurezza il paese. I costi son stati alti, ma ne è valsa la pena.
Si tratta di una patetica bugia, come dimostra il grafico che riporta l'andamento dello spread negli ultimi mesi (clicka per aprirlo).
Rifacciamo un pò di cronologia.
Berlusconi si dimette il 9 Novembre e lo spread schizza altissimo, gli interessi sul debito toccano il 7.25%. Il giuramento del nuovo esecutivo non porta variazioni di sorta, anzi, il 25 Novembre, una settimana dopo la fiducia in Parlamento, il tasso è al 7.26%. Il governo vara la manovra il 4 Dicembre e il tasso di interesse scende sotto quota 6% il giorno dopo, ma risale vertiginosamente per tutto il mese di Dicembre, toccando 7.16% ad inizio Gennaio. 
Da allora inizia una forte discesa. Si dice, merito della finanziaria, appunto. Ma perchè? Per ammissione di tutti i commentatori e gli economisti e perfino dello stesso Monti, non ci sono effetti immediati, anzi, i conti dell'Italia peggiorano. Tutti gli istituti economici e statistici rivedono al ribasso le stime sull'economia italiana, che ritorna in depressione.
Cosa è successo dunque? In realtà per avere una risposta, bisognerebbe guardare a Francoforte, e non a Roma. Un super Mario da ringraziare in effetti c'è, ma è Draghi, non Monti. Già da Dicembre la BCE aveva inziato a pompare liquidità nel sistema bancario, per poi aumentare in Gennaio e Febbraio.  E' in quel momento che i tassi cominciano a scendere, prima in Spagna, poi in Italia, per riallinearsi ai loro dati storici, prima della crisi di panico iniziata in estate.
D'altronde, delle due l'una. Se i tassi sono quelli di Marzo 2011, o non eravamo messi molto male allora, o non siamo messi molto bene oggi. Come ben si sapeva già dallo scorso Agosto, i fondamentali dell'economia italiana non erano tali da giustificare un attacco che era semplicemente speculativo, l'Italia era solvente anche sotto il governo Berlusconi. Ma le banche stavano subendo una crisi di liquidità senza precedenti, dovuta alle perdite del settore, soprattutto per via della crisi greca e dell'obbligo di calcolare a prezzi di mercato il valore dei propri asset. A questi investitori la riforma delle pensioni non interessava e non interessa. Quel che contava era avere cash nei propri forzieri, e lo hanno avuto quasi gratis dalla BCE.
Inoltre, un briciolo di serietà sarebbe d'obbligo, soprattutto in questi casi. Col debito al 120% e in ascesa, pensiamo davvero che una finanziaria da 30 miliardi possa avere effetti salvifici sui conti del paese? Si tratta di una goccia d'acqua nel deserto. Per altro in direzione sbagliata, perchè l'innalzamento delle tasse ha rallentato l'economia (gli ordini industriali sono a picco), diminuendo quindi le entrate e peggiorando, in prospettiva i conti e la capacità del paese di ripagare il proprio debito.
La saggezza avrebbe suggerito un mix più intelligente di politiche economiche, sfruttando i benefici portati dall'immissione di liquidità per dare un pò di respiro alle imprese e incentivare l'occupazione. Altro che riforma dell'articolo 18. Si è invece preferito fare una finanziaria regressiva per cercare di prendersi meriti non propri, in linea con la politica dell'annuncio di questo governo, che usa i media come gran cassa per attuare la sua propaganda. Dalle liberalizzazioni che porterebbero un aumento del 10% del PIL, alla Tav che varrebbe un ulteriore 1%, alla riforma del mercato del lavoro che rilancerebbe l'occupazione. Tutte chiacchere, tutti annunci. Come ai tempi di Berlusconi, il vero padre di questo governo.

Wednesday, 14 March 2012

Fornero: quando lo stile è sostanza

Il ministro Fornero sta riuscendo nel compito quasi impossibile di far rimpiangere il suo predecessore Sacconi, una impresa veramente da titani.
Fornero pare molto attenta agli articoli da usare quando ci si riferisce alla sua regal persona - guai a dire LA Fornero - ma non ha altrettanta attenzione quando si tratta di tirare il collo ai lavoratori come fossero capponi a Natale. Prima, come l'eroina di un feuilleton di quarta serie, si mette a piangere annunciando i sacrifici dei pensionati, ma non si occupa neppure di salvaguardare le pensioni più basse, che se fosse dipeso da lei non sarebbero nemmeno state indicizzate.
Poi dichiara guerra ai sindacati, prima con minaccie, ieri addirittura con ricatti: o firmate o non diamo soldi ai lavoratori e li lasciamo in mezzo alla strada. Un linguaggio osceno di un ministro indegno.
La riforma da barzelletta che Fornero cerca di portare a casa è un proclama ideologico, sciocco e cieco. Il ministro vuol togliere l'art.18 (basta privilegi, pensate un pò) fingendo di ignorare che è un falso problema, che non proibisce certo il licenziamento per motivi economici, che difende semplicemente contro la discriminazione, che non ha nulla a che vedere con la flessibilità del mercato del lavoro. Soprattutto negando l'ovvietà che i bassi investimenti sono funzione della scarsa produttività (dove sono i soldi per ricerca e sviluppo?), della lentezza burocratica, della corruzione, delle tasse troppo alte. Cose di cui il governo si lava le mani.
In realtà, come qualsiasi commentatore serio potrebbe testimoniare, una seria riforma del mercato del lavoro richiederebbe, quella sì, una "paccata di miliardi" per garantire una vera copertura e soprattutto per garantire il training dei disoccupati. Altrimenti non cambierà nulla, anzi le cose peggioreranno. Una riforma di questa portata non si può fare, come ovvio, in periodi di recessione, quando ci sono meno soldi pubblici e quando la disoccupazione è in aumento. E non si può fare a colpi di decreto, perchè la famosa flex security danese funziona in un sistema di relazioni industriali completamente diverso, corporativo e non certo conflittuale come quello italiano.
Soprattutto in Danimarca hanno ministri più seri, non clown che vanno ad un tavolo di trattativa minacciando di tagliare i soldi messi a disposizione del governo, senza che questi soldi siano stati ancora stanziati. Fornero, col suo linguaggio da scaricatore, parla di "paccata" di miliardi perchè non sa il numero, e nemmeno sa dove verranno trovati. Chiederà a papà Monti che dovrà prendere in mano la cosa. Lei, intanto, potrebbe dimettersi.

Thursday, 8 March 2012

Le donne e la finanza che ci piace


 
Quando l'economia è anche questione di genere. Nei paesi in via di sviluppo le donne sono di solito quelle che soffrono di più. Condannate da culture tradizionali a curare solamente casa e famiglia non hanno accesso a nessun tipo di risorsa finanziaria e patiscono dunque molto più degli uomini gli stenti della povertà.
In realtà, come giustamente spiegato da Yunus, il padre della microfinanza, le donne sono molto più capaci di combattere la povertà degli uomini, sono molto più tenaci e capaci. Ed infatti, grazie ad una gestione oculata e meno rischiosa, il tasso di prestiti non ripagati da donne è solo dell'1.3%, mentre nel caso degli uomini questo numero è più alto di oltre 10 volte, il 15%.
Non solo, le donne sono anche più giuste e generose, portate naturalmente a dividere equamente le risorse finanziarie con gli altri membri della famiglia, mentre gli uomini sono assai più inaffidabili. L'esperienza della maggior parte dell ONG è che un aumento di reddito gestito da uomini finisce più spesso che no in alcol.
Le statistiche d'altronde parlano chiaro: quando sono le donne a gestire la cassa, un aumento del 100% del volume di prestiti si trasforma in una crescita dell'1% delle spese famigliari per cibo, e del 5% nelle spese non relative al cibo. Nel caso il prestito sia gestito da uomini, si registra un aumento del 2% nelle spese per il cibo, e nessun altro tipo di crescita di consumo negli altri settori.
Non può dunque essere un caso che la maggior parte di programmi di microcredito siano indirizzati alle donne. Sono loro a poter dare un contributo decisivo alla lotta alla povertà, trasformando, per una volta, la finanza in un vero strumento di sviluppo.

Sunday, 4 March 2012

Banche, profitti e soldi pubblici

Interessante intervista rilasciata da Mussari, il presidente di Abi, al Corriere. Nel passaggio fondamentale, Mussari, che non riesce a spiegarsi l'ostilità diffusa contro le banche, spiega perchè gli interventi legislativi del Parlamento sui costi delle commissioni bancarie sono inaccettabili.

Se tutti, Parlamento/Monti/Passera stanno operando con onestà intellettuale, dove risiede la causa di un conflitto così lacerante?
«Non è chiaro che le banche sono imprese e hanno il diritto/dovere di fare profitti. Non possiamo essere servizio pubblico perché è in contrasto con la nostra natura giuridica e i milioni di azionisti che abbiamo, perché cozza con le scelte privatistiche che il Paese ha fatto per tempo e il modello adottato in tutto il mondo. In più le ricordo che mentre nel resto d'Europa gli Stati hanno usato i pacchetti anticrisi per salvare le banche, spendendo duemila-miliardi-di-euro, da noi i soldi sono stati impegnati per tamponare gli effetti sociali della crisi. Le pare un merito da poco?»

Ma è proprio un sindacalista, Raffaele Bonanni, a invocare una legge che fissi la funzione sociale delle banche.
«Bonanni non dice mai cose banali ma una legge no. Le banche sono imprese private capaci di far propri obiettivi di responsabilità sociale. La nostra rotta guarda all'economia reale ma se non siamo capaci di remunerare il capitale dove prendiamo le munizioni da dare alle imprese?» 


Onestamente, trattasi di una intervista lunare cui non si può nemmeno sotto tortura riconoscere il beneficio della buona fede. Lasciamo stare la ridicola tutela dei piccoli azionisti - che non hanno potere in consiglio di amministrazione e magari potrebbero giovarsi di una riduzione degli stipendi dei vertici e degli sprechi di cosiddetta "rappresentanza" che le banche macinano come nulla fosse. Concentriamoci invece sul diritto-dovere di fare profitti e di non essere un servizio pubblico. Si potrebbe pure esser d'accordo, se non che il bail out delle banche nel 2008 è stato fatto sulla base proprio dell'idea che le banche sono un servizio pubblico, altrimenti sarebbero fallite come qualsiasi altra impresa privata che ha fatto investimenti rischiosi.
Mussari pensa di cavarsela dicendo che le banche italiane non hanno preso soldi pubblici, ma mente. Vero, non c'è stato bail out diretto, ma sa benissimo che senza il salvataggio delle banche anglo-americane sarebbero andate a picco anche le nostre. Ma lasciamo pure stare l'effetto indiretto. Ci spieghi invece i soldi che prende dalla BCE all'1% e presta a sei volte tanto. Non sono soldi pubblici? Quale altra impresa privata ha questa possibilità? Chi viene finanziato ad un tasso ridicolo direttamente da un ente pubblico? Soltanto, forse, alcune imprese pubbliche in Cina. Che infatti hanno obiettivi politici e non solo di profitto.
Se con questo supporto pubblico e questo vantaggio che non ha nulla a che fare col mercato, le banche italiane non sono capaci di remunerare il capitale, di chi è colpa? Mussari pensa davvero che il sistema bancario possa continuare a prendere soldi pubblici e poi sottrarsi a qualsiasi tipo di regola, "no, la legge no"?
Bisogna dar loro i soldi e poi fidarsi? E' questa l'idea? In che maniera son capaci le banche di far propri obiettivi di responsabilità sociale, quando la corporate social responsability di quasi tutte le banche è a livelli ridicoli, quando gli investimenti socialmente responsabili sono marginali al sistema, quando la primaria funzione sociale, il credito all'impresa (per cui ricevono cash all'1%) passa sempre in secondo piano?
Davanti a queste incredibili pretese, non sarebbe ora di nazionalizzare le banche? Così non ci sarebbero obblighi di remunerare il capitale e si potrebbero finanziare le imprese al costo effettivo del denaro, l'1%. Non bisogna essere nobel in economia per capire l'effetto che questo avrebbe sugli investimenti....

Thursday, 1 March 2012

I soldi gettati per la TAV

Gli scontri in val di Susa han riportato in primo piano il problema dell'alta velocità tra Torino e Lione, vexata quaestio ormai da oltre un decennio.
Come sempre in questi anni ci si è concentrati molto sugli scontri, sulle resistenze alla modernità, sul cosiddetto NIMBY, ma raramente si è entrato nel merito della questione.
Anzi, lo si è proprio accuratamente evitato. In tutte le trasmissioni TV ed interviste, i politici di (quasi) tutti gli schieramenti si limitano a dire che lo Stato ha deciso e quindi si deve fare. Ancor di più, ha deciso l'Europa, e quindi come si fa a dire di no? Ed in fondo, in Francia non ci sono proteste, perchè dovremmo avere dei problemi noi?
Sono giustificazioni un pò ridicole. Nessun dubbio che l'interesse generale prevalga sul particolare e che lo Stato abbia degli obblighi, ma questo dovrebbe valere per le decisioni razionali e non per le idiozie tipo TAV. Intanto andrebbe detto che in Francia la parola finale spetta alla comunità locali che non vengono prese a mazzate ma semmai convinte.
Ma il nocciolo del problema è un altro. La TAV è inutile. Che sia stata decisa e votata non vuol dire automaticamente che sia una cosa utile. Una linea ferroviaria già esiste ed è clamorosamente sotto-utilizzata, circa 1/6 della sua capacità. E le cose stan solo peggiorando, da 8 milioni di tonnelate nel 2000 a poco più di 2 nel 2009.
Inoltre dovrebbe essere ben chiaro un fatto, ignoto alla maggioranza degli italiani. Il treno in questione sarebbe solo per il trasporto merci, e non per quello delle persone che ha un volume fondamentalmente insignificante e non è comunque previsto su quella tratta.
Ora la domanda sorge spontanea: che senso ha un investimento da 25 miliardi di Euro per risparmiare 15 min di viaggio tra Torino e Lione per delle merci. I vantaggi sono, come evidente anche ad un profano, risibili. I costi, esagerati. L'ambiente ne risentirà brutalmente ed il danno non è certo giustificabile con la balla di spostare su rotaia il traffico su gomma: si può già fare ora, con la linea esistente.
Ancora peggio ci pare questo progetto in tempi di crisi economica. Non a caso ora si parla di TAV low cost, che dimezzerebbe l'esborso in denaro. Ma rimane lo stesso una montagna di soldi. Il governo ha rinunciato alle Olimpiadi romane (che avrebbero avuto ben altro impatto sulle infrastrutture romane, tanto per dire) perchè non se la sente di impiegare risorse pubbliche in un momento in cui queste sono scarse. E perchè invece se la sente di buttarle per la TAV?
Anche tutti i bei discorsi che i benpensanti han fatto per le Olimpiadi potrebbero essere ri-applicati al progetto in questione: in Italia non si possono fare stime attendibili, i costi son sempre superiori, gli oneri eccessivi, le inefficienze all'ordine del giorno. Per non parlare di possibili infiltrazioni mafiose. Eppure nessuno sembra prendere in considerazione questi problemi che invece son stati vastamente pubblicizzati dai giornali governativi (cioè ormai tutti) per giustificare la rinuncia alla candidatura olimpica.
In realtà, è lapalissiano a chiunque abbia anche solamente un briciolo di informazione corretta che la TAV è senza senso, uno spreco di soldi pubblici ancora più offensivo in questo momento di tagli. Ma l'establishment trasversale della seconda Repubblica ha deciso di farne un esempio politico per riaffermare il suo potere. Se tutti i maggiori partiti sono a favore, non potrà essere un popolo a bloccarli. Se gli interessi economici del grande capitale (quello che finanzia Repubblica e Corriere, tanto per dire) sono in discussione, allora devono prevalere perchè il profitto è il confine davanti a cui si ferma la volontà popolare e la difesa dell'ambiente. Sotto il falso mito del progresso si sta in realtà combattendo una battaglia ideologica. Non lasciamogliela vincere.